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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Stefano Torossi

La Pelanda (e altri fatti)

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Nel 1888 l'architetto Ersoch costruisce un moderno mattatoio in uno spazio immenso ai piedi del Monte Testaccio, antica discarica romana dove nei secoli si erano ammucchiati fino a un’altezza di sessanta metri i cocci delle anfore che servivano per trasportare a Roma l’olio iberico. Una volta svuotate, inservibili per altri usi, le rompevano e le scaricavano (già allora c’erano i vuoti a perdere) in quel prato che poco alla volta era diventato una collina.
Il mattatoio continuò nella sua funzione fino al 1975 quando, dismesso, degenerò in una serie di capannoni e cortili fatiscenti; poi, poco alla volta le belle strutture in mattoni, ferro e ghisa vennero recuperate e riutilizzate per la cultura.
Della vecchia destinazione non era rimasto più niente, se non un vago odore di stallatico e i nomi di alcuni padiglioni: lo Stabilimento di Mattazione, il Mercato del Bestiame, il Macello dei Capretti, la Tripperia e, arriviamo a noi, la Pelanda, sulla cui funzione non ci pare necessaria aggiungere spiegazioni.
In questo spazio di archeologia industriale, con ancora sospesi in aria i binari di ferro su cui scorrevano attaccate a ganci le carcasse del bestiame dirette alle vasche per essere scottate e poi scuoiate, si è inaugurata qualche giorno fa una mostra di disegni di Sergio Staino. Noi c’eravamo e bisogna dire che un po’ per l’ottimo restauro, un po’ per la presenza di gigantografie multicolori, quello che in origine doveva essere un ambiente macabro e sanguinolento si era trasformato in una bella fiera colorata. Presenti molti amici dell’epoca. Aria nostalgicamente sessantottina, o appena post. Una specie di rimpatriata poco politica e molto personale e umana. Divertente.
Leggiamo sui giornali che nei giorni scorsi il gioco si è rinnovato con concerti di vari gruppi musicali, per concludere mercoledì 17 con l’esibizione di una piccola formazione: Michele Staino (il figlio), al contrabbasso, Cantini alla tromba, Mocato al piano e Coscia alla fisarmonica. Sergio Staino (il padre) a fare gli onori di casa. Ci è dispiaciuto non esserci, ma avevamo altro da fare.


E precisamente puntare verso Macerata dove ci aspettava:
Il Festival di Musicultura.
Un’occasione annuale che non perdiamo, cadesse il mondo. E’ un festival di musica e di poesia ad alto livello, che a ogni edizione trova il modo di laureare qualche artista nuovo e speciale. L’organizzazione è amichevole e impeccabile, e l’ambientazione fa sì che oltre che ai concerti e alle presentazioni ci si incontri continuamente in giro per le tre strade, le tre piazze, i bar e le trattorie della piccola città. Un salotto colto, mondano e informale.
Ormai che frequentiamo il festival da parecchio e lo abbiamo collocato bene in alto nella nostra stima, ci è stato facile compilare una lista delle Costanti che ritroviamo anno dopo anno. Eccole.
La Costante meteo. Almeno una delle tre serate allo Sferisterio, che si trova, come tutti sanno, all’aperto, è funestata dalla calata dei venti glaciali del Polo Nord. Non si capisce perché, mentre il giorno si suda sotto il sole, la sera queste brezze gelate debbano convergere con assoluta precisione su Macerata. Abiti scollati per le signore, camiciole per i gentlemen a inizio spettacolo, poi poco alla volta spuntano sciarpe, maglioni, eskimo imbottiti e addirittura coperte, finché il pubblico elegante dell’inizio si trasforma in una divisione di alpini alle grandi manovre.
La Costante sicurezza. Fabrizio Frizzi, presente a presentare da tempo immemorabile. Garbato, rassicurante, educato, misurato: nello stesso tempo fanciullesco e padronissimo della scena. Quello di cui nessuna festa può fare a meno: l’amico Frizzi.
La Costante noia. Quest’anno la faccenda ha superato ogni aspettativa. Quasi quaranta minuti di Capossela in tenuta da rabbino. Una tortura gravemente lesiva dei diritti dello spettatore. Letture bisbigliate di sue pagine demenziali, seguite da cantatine indefinibili, altrettanto bisbigliate e altrettanto insulse. Qualcuno dovrebbe dirgli che se ci se la tira troppo, poi si rompe. Impressione (nostra) di una certa malcelata insolenza nei confronti degli spettatori. Da parte loro (gli spettatori), applausi scroscianti. Mah.
La Costante sorpresa. Xiao He, un cinese molto suggestivo che ha suonato strano, e cantato ancora di più, con vocalizzi di profondità abissale e fischi glottici. E poi, nella migliore tradizione occidentale, lo Gnu Quartet, tre archi e un flauto. Finalmente niente batteria, né chitarre elettriche. Un suono classico, impressionistico e ricco nelle armonie inizio novecento, ma anche swingarolo e jazzistico della migliore qualità. Secondo la nostra vecchia fissazione un gruppo così dovrebbe onorare l’alto livella della propria musica suonando in frak. Invece, salvando la flautista, carina ed elegante in lungo, gli altri tre, che non sono particolarmente carini né eleganti, niente da fare: magliette e jeans sformati (eppure su quelle teste abbiamo visto parecchi capelli grigi che dovrebbero sconsigliare troppa disinvoltura giovanilistica). Anche qui, mah?
E per concludere, la Costante imbarazzo. Che prende noi che arriviamo in questa piccola Macerata, che di cose belle ne ha, ma sono niente rispetto a Roma che ne è piena. E l’imbarazzo è nel vedere che qui i cassonetti non traboccano di immondezza, che le strade sono pulite, che in terra le cicche sono pochissime (qualcuna ce n’è, non siamo mica in Svizzera), che le auto sono parcheggiate bene, ecc. ecc. Insomma che è tutto normale, come dovrebbe essere. E invece da noi…
Segnaliamo, come riflessione, una vena di sadismo nei confronti dei cantanti da parte di chi ha scelto la sigla di apertura e chiusura. Sinatra, la sua voce di assoluta perfezione, e “The lady is a tramp” in uno di quei favolosi arrangiamenti dell’epoca (Nelson Riddle?). Sarà datato, sarà che lo swing non è più di moda, ma è come mettere un pittore appena uscito dall’Accademia davanti al Giudizio Universale di Michelangelo. “E adesso datti da fare”. Come si sente?



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