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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Anna Ruchat

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Da quanto tempo ti occupi ufficialmente di traduzioni?



Ho lavorato nell'ambito della traduzione fin dai primi anni di università, sono dunque circa 30 anni che esercito questo mestiere e mi piace ancora molto.



Come hai cominciato?



Ho avuto molta fortuna nel mio mestiere e gli autori, soprattutto all'inizio, mi sono stati portati dal caso. Se è vero da un lato che ho sempre tradotto qualunque cosa mi capitasse (dagli articoli sul cinema, sull'architettura o di filosofia, agli script dei documentari, alle guide turistiche), nella convinzione, che ho tutt'oggi, che qualunque cosa aiuti a entrare nelle maglie della propria lingua madre, è anche vero che il mio primo testo letterario è stato Il respiro di Thomas Bernhard: avevo poco più di vent'anni e un italiano ancora molto incerto. Allora non esistevano le scuole di traduzione e la mia scuola è stata in gran parte la penna di Renata Colorni, in quegli anni redattrice all'Adelphi, grazie alla quale ho potuto tradurre ben tre libri di Bernhard, un autore che continua ad essere ai miei occhi una sorta di paradigma della scrittura "etica". È come se alla base di tutti gli scritti di Bernhard ci fosse un patto di onestà con il reale che traspare in ogni parola, in ogni frase, in ogni virgola: «alla fine tutto deve tornare» come in un calcolo matematico, scrive Benhard, e questo per me è rimasto un imperativo imprescindibile, nella scrittura come nella traduzione. Una sorta di "misura" universale.



In che rapporto entri con gli autori? Hai contatti diretti con loro?



Bernhard era vivo quando lo traducevo ma non ho mai avuto l'opportunità, né la necessità di scrivergli. Molti degli autori che ho tradotto dopo di lui erano morti da tempo (Victor Klemperer, Paul Celan e Nelly Sachs). Con alcuni dei viventi ho avuto rapporti telematici (domande su punti oscuri e risposte), con altri il contatto professionale si è trasformato in rapporto di amicizia; nel caso di qualcuno è stato invece il rapporto di amicizia che mi ha spinto a cercare un editore italiano.



E con Mariella Mehr com'è andata?



Mariella è un caso a sé. Nella sua persona, nella figura di donna, zingara e perseguitata, s'incrociano nel modo più sconvolgente destini personali, storia d'Europa, storia svizzera e persino l'attualità. E' nata a Zurigo nel 1947 da una famiglia jenische alla quale è stata strappata per essere consegnata a famiglie affidatarie, orfanotrofi, istituti psichiatrici, ha subito violenze, stupri, elettroshock, e all'età di diciotto anni, come era accaduto a sua madre, le hanno tolto il figlio ed è stata resa sterile. Dopo di che ha fatto della denuncia della persecuzione del suo popolo in Svizzera il centro della propria scrittura.

E dunque è preziosa per la sua testimonianza sullo sciagurato progetto di sedentarizzazione forzata del popolo zingaro, di cui da noi si sa poco e niente.

Mariella è un testimone, ma è anche una grande scrittrice e poetessa (due cose che non necessariamente coincidono e che non è semplice gestire insieme). Per molti anni ho cercato un editore italiano che fosse disposto a pubblicare il suo Daskind (Labambina, effigie 2006)(Mariella aveva litigato con tutti i suoi editori di lingua tedesca) e quando l'ho trovato e ho cominciato a tradurla già la conoscevo personalmente e sapevo che lei, per via dei molti traumi subiti, aveva bisogno di un sostegno più ampio: non bastava tradurla, bisognava farsi poi carico, in una certa misura, di lei e della sua storia. Per qualche anno l'ho accompagnata (con il marito e l'editore italiano) in tutte le occasioni pubbliche, festival, letture, ho assistito alle interviste e ho imparato a conoscere i suoi crolli, i suoi camuffamenti, le sue inaspettate riprese. Al centro della sua vita privata così come di ogni sua apparizione pubblica c'era l'alcol, come problema e come zattera di salvataggio: l'alcol sul momento la rendeva più lucida e attutiva la sofferenza del ricordo, le dava forza, ma poi la privava della dignità facendola sentire in colpa e spingendola di nuovo a bere. Parlo al passato perché mentre i due ricoveri cui si è sottoposta nella clinica di San Colombano, vicino a Pavia, non le hanno giovato, quello molto più prolungato e appoggiato da una efficace terapia in una clinica svizzera specializzata nelle dipendenze dall'alcol, sembra non solo averle restituito la forza necessaria per scrivere, ma anche il sostegno per vivere.



Qual è stato lo spartiacque, il momento in cui Mariella ha capito che poteva sottrarsi al destino di emarginazione e darsi voce attraverso la scrittura?



Non è facile rispondere a questa domanda perché i dati biografici di Mariella sono ormai tutti "letteratura". Intendo dire che lei stessa con l'intento più o meno consapevole di cancellarli ne ha fatto delle "storie" e forse nemmeno lei sa più in quale misura la realtà sia contenuta in quelle storie. Comunque i fatti determinanti per l'inizio della sua attività giornalistica di denuncia (1972-81) sono la sottrazione del figlio (nato nel 1966) e il suo affidamento a una famiglia contadina, l'anno e mezzo trascorso nel carcere femminile di Hindelbank e il contatto con persone (giornalisti della sinistra svizzera) che l'hanno spinta o aiutata nell'opera di denuncia. Il processo di denuncia ha inizio nel 1972 sulla rivista Fokus con un articolo di Mariella Mehr che annuncia l'iniziativa di un gruppo di madri intenzionate a ritrovare i propri figli. Con l'aiuto di Hans Caprez e di altri giornalisti Mariella comincia a pubblicare la documentazione relativa a se stessa e alle altre madri facendo emergere quello che lei stessa definisce il "genocidio elvetico". Dopo di che il passaggio dalla scrittura giornalistica a quella creativa è frutto di una rottura diversa che avviene a livello più intimo, e complesso: una volta ottenuto un minimo risarcimento dal governo elvetico la comunità jenische si dichiara soddisfatta e rinnega Mariella: rifiuta le modalità della sua battaglia, soprattutto le rinfaccia la scrittura. Il difficile rapporto con la stessa comunità jenische per la quale aveva sostenuto le sue battaglie la spinge a rifugiarsi nella lingua (quella degli "aguzzini"), nella parola, come unico porto sicuro. E' così che la scrittura diventa la sua casa e la sua identità: non svizzera, non jenische, ma scrittrice. Questa è anche la ragione per cui lei e il suo compagno intorno al 1990 si sono trasferiti in Italia.



Da molti anni tu vivi a Pavia, e insegni traduzione a Milano. Come imposti questo tuo insegnamento?



Insegno la traduzione in modo seminariale, come una forma di artigianato, portando a lezione il lavoro che ho in corso e cercando di far entrare i ragazzi il più possibile nelle dinamiche del testo. Mi è capitato più volte di tradurre interi libri con gli studenti suddividendo il lavoro, cosa che, poiché insegno la traduzione saggistica, non presenta normalmente grandi problemi, purché le questioni di uniformazione vengano discusse e sempre tenute d'occhio sia a monte del lavoro che durante. Di nuovo un caso a parte – perché si tratta di letteratura e perché ho potuto lavorarci per un anno intero– è Accusata di Mariella Mehr tradotta con tre allieve (Claudia Costa, Federica Mauri, Valeria Sanna) nel corso di un anno scolastico: il primo capitolo fatto in classe "all'unisono" e poi gli altri suddivisi tra noi e verificati negli incontri periodici e nelle letture incrociate. Direi che è stata una delle traduzioni collettive più riuscite e più emozionanti data anche la durezza del testo.



Tu traduci autori svizzeri che scrivono in tedesco. Che differenze presenta la lingua degli scrittori svizzeri rispetto a quella di un autore tedesco?



Gli autori svizzeri parlano una lingua e ne scrivono un'altra, questo vale per Mariella Mehr come per Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch. Peter Bichsel, mi diceva anni fa in un'intervista: «Il buon tedesco è per noi, non una lingua straniera, ma una lingua che ci risulta estranea. Noi scriviamo in un linguaggio artificiale, ed è una cosa che apprezzo molto; in realtà amo questa situazione linguistica, dobbiamo plasmare una lingua che non ci appartiene ed è per questo che tutti noi, noi svizzeri, già da trecento anni, siamo indotti a formulazioni rapide e concise.» Ecco direi che questa è una buona definizione della differenza.



Come è nata la traduzione, questa volta dal francese, del poema di Char, già recensito sul Paradiso?



Char è di nuovo il caso e un po' anche un ritorno sulla mia storia. Il francese, contrariamente al tedesco, è una lingua che ho sentito molto nell'infanzia. Anche la tradizione surrealista da cui Char proviene pur senza farne veramente parte, è tra le cose che più mi interessano nella poesia francese, soprattutto per gli incroci con il mondo dell'arte figurativa, per quella mancanza di rigidità formale che spalanca sempre nuovi universi. Quando ho trovato quel piccolo volume in libreria durante un viaggio a Parigi l'ho subito acquistato: mi stupiva e interessava la combinazione cartella d'arte - livre de poche: una cosa pensata per pochi eletti finiva nei tascabili, con grande giovamento per il pubblico "qualunque". Nel corso di un'estate e senza avere un editore ho tradotto il libro, che è molto breve ma estremamente complesso, con l'aiuto indispensabile di un'amica francese. Qualche tempo dopo ho saputo che Archinto aveva acquistato i diritti e ho proposto loro la traduzione che avevo fatto.



E per l'immediato futuro che progetti hai?



Il libro che sto traducendo ora è la ripresa di un vecchio lavoro: si tratta dei Diari di Victor Klemperer, professore tedesco ed ebreo rimasto a Dresda durante tutta la guerra e sopravvissuto lì tra un divieto e l'altro, tra una sottrazione e l'altra, grazie alla moglie ariana. Klemperer ha scritto un'opera di testimonianza mastodontica su tutta la prima metà del Novecento, di cui dieci anni fa ho tradotto Testimoniare fino all'ultimo, gli anni 1933-45. Ora sto curando per la nuova Scheiwiller un volume che comprende solo il 1945, un momento chiave perché è l'anno della distruzione di Dresda, della fuga dei Klemperer a piedi fino a Monaco, della fine della guerra, dell'incontro con gli americani, con i russi, della decisione di rimanere a est e di iscriversi al KPD, il partito comunista, della fame nei primi mesi del dopoguerra, eccetera. Sto insomma felicemente lavorando - sempre in collaborazione con le mie allieve delle Scuole Civiche di Milano - a questo volume che sarà corredato da un indice dei nomi commentato e da una cartina geografica (tutte cose che per mancanza di spazio non sono state introdotte nell'edizione precedente) di cui consiglio caldamente a tutti la lettura quando sarà in libreria, convinta che sia di per sé una lezione straordinaria sulla storia, sulla cultura e sulla vita.







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