CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Fascino e abbiocco: 'Tassili' dei Tinariwen.

Il discorso sulla world music è sempre uno: quanto di quello che apprezziamo è dipeso dalle contaminazioni a cui abbiamo assistito e abbiamo ascoltato in questi anni, e quanto da una nostra personale propensione a cercare musiche 'altre'?
Mi chiedo: se non ci fossero stati Eno e Byrne che con My life in the bush of ghosts hanno aperto un sentiero fino ad allora inesplorato e Peter Gabriel con la sua etichetta terzomondista e le sue splendide intuizioni a rammentarci che la cultura non è solo quella anglosassone, il nostro orecchio avrebbe avuto la stessa fortuna di udire l'inudibile?
Probabilmente sì: mi viene in mente l'opera colossale di Stephen Micus e la sua capacità di confrontarsi con strumentazioni di ogni tipo. E' indubbio però che la 'nostra' musica avesse bisogno di altro per sopravvivere ad una standardizzazione di massa. E l'impegno e la sensibilità di pochi musicisti e mirati hanno fatto il resto.
Un discorso questo però ancor troppo occidental-centrico a cui si può obiettare con una domanda ad hoc: può un ascoltatore curioso e non pigro rimanere indifferente alla malia di strumenti come l'oud e la kora? Di quest'ultima Toumani Diabate è stato il vero e proprio 'sponsorizzatore' e dischi 'contaminati' come Songhai ne sono una testimonianza viva e convincente.
Anouar Brahem, musicista tunisino, ha fatto dell'oud una vera e propria essenza di vita (un album su tutti: Le pas du chat noir) e le sue composizioni sfidano davvero l'usura del tempo.
Tutto questa cappella per affrontare il nuovo disco dei Tinariwen. Il gruppo è ormai una sigla, perché musicisti entrano ed escono in continuazione dal nucleo essenziale, e sono famosi soprattutto perché, essendo di origini berbere, per anni hanno combattuto una sanguinosa lotta di sopravvivenza contro il governo del Mali. Questo è il loro quinto disco, ma non sposta di un centimetro il discorso generale. Si tratta di una musica di chiara matrice africana, che è un perfetto trait d'union col blues delle origini. Se si ascolta, per esempio, il brano di apertura, 'Imidiwan Ma tennam' non si può non pensare al grande Robert Johnson (tra l'altro il contributo, in un altro brano 'Ya Messinagh' dei Dirty Dozen regala una dimensione decisamente New Orleans).
Dunque chi decide di acquistare un disco del genere sa a cosa va incontro: suggestione quasi arcaiche, sonorità secche e blueseggianti e qua e là una tensione che può sconfinare nell'abbiocco. Ma è uno scotto che va pagato.
Tinariwen
Tassili
Coop - 2011
Mi chiedo: se non ci fossero stati Eno e Byrne che con My life in the bush of ghosts hanno aperto un sentiero fino ad allora inesplorato e Peter Gabriel con la sua etichetta terzomondista e le sue splendide intuizioni a rammentarci che la cultura non è solo quella anglosassone, il nostro orecchio avrebbe avuto la stessa fortuna di udire l'inudibile?
Probabilmente sì: mi viene in mente l'opera colossale di Stephen Micus e la sua capacità di confrontarsi con strumentazioni di ogni tipo. E' indubbio però che la 'nostra' musica avesse bisogno di altro per sopravvivere ad una standardizzazione di massa. E l'impegno e la sensibilità di pochi musicisti e mirati hanno fatto il resto.
Un discorso questo però ancor troppo occidental-centrico a cui si può obiettare con una domanda ad hoc: può un ascoltatore curioso e non pigro rimanere indifferente alla malia di strumenti come l'oud e la kora? Di quest'ultima Toumani Diabate è stato il vero e proprio 'sponsorizzatore' e dischi 'contaminati' come Songhai ne sono una testimonianza viva e convincente.
Anouar Brahem, musicista tunisino, ha fatto dell'oud una vera e propria essenza di vita (un album su tutti: Le pas du chat noir) e le sue composizioni sfidano davvero l'usura del tempo.
Tutto questa cappella per affrontare il nuovo disco dei Tinariwen. Il gruppo è ormai una sigla, perché musicisti entrano ed escono in continuazione dal nucleo essenziale, e sono famosi soprattutto perché, essendo di origini berbere, per anni hanno combattuto una sanguinosa lotta di sopravvivenza contro il governo del Mali. Questo è il loro quinto disco, ma non sposta di un centimetro il discorso generale. Si tratta di una musica di chiara matrice africana, che è un perfetto trait d'union col blues delle origini. Se si ascolta, per esempio, il brano di apertura, 'Imidiwan Ma tennam' non si può non pensare al grande Robert Johnson (tra l'altro il contributo, in un altro brano 'Ya Messinagh' dei Dirty Dozen regala una dimensione decisamente New Orleans).
Dunque chi decide di acquistare un disco del genere sa a cosa va incontro: suggestione quasi arcaiche, sonorità secche e blueseggianti e qua e là una tensione che può sconfinare nell'abbiocco. Ma è uno scotto che va pagato.
Tinariwen
Tassili
Coop - 2011
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