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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Gianfranco Franchi

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Come hai giustamente sottolineato all'inizio del libro, Thom Yorke non è un depresso, le sue canzoni sprizzano adrenalina da tutti i pori e i suoi testi anche (vedere un live per credere). Ma possibile che quando nel panorama rock emerge qualcuno di veramente 'alieno' ci si sbriga subito a etichettarlo, forse per paura che tutti gli altri troppo umani si sentano frustrati?



Credo serva contestualizzare per bene per capire perché sia successo tutto questo. Erano gli anni del grunge, l'icona della rabbia e della malinconia era Kurt Cobain. Nevermind era un disco capace di fonderle entrambe; c'erano pezzi come "Lithium" che sembravano l'esatta espressione di questa fusione – pura rabbia e puro malessere. Quando, da Oxford, spunta fuori una nuova band con un singolo di intensità e immediatezza micidiale, chiamato "Creep", con un testo romantico, carico di disagio e incomunicabilità, a parecchi viene in mente che questa nuova band sta rispondendo al sound e alle tematiche di Seattle. Il successo planetario del singolo (non dell'album; già questo è interessante) fa il resto. E così i Radiohead, almeno sino a Ok Computer, hanno rischiato di restare "quelli di Creep": quelli del pezzo praticamente grunge, col testo cupo e adolescenziale. L'etichetta, sbagliata, nasce per una catalogazione imprecisa, avventata e opportunista. D'altra parte, e spezziamo una lancia in favore della critica, quante band inglesi emergono con uno o due pezzi e poi, dopo neanche tre dischi, cambiano lavoro? A quei tempi, in effetti, i Radiohead non sembravano alieni. Sembravano ruvidi e pop.



Thom letterato, rocker anomalo, non si impasticca, non si fa di eroina, crack o altro. Ha una moglie, dei figli, viene da Oxford ma tutto questo non gli impedisce di essere il più naturalmente direi lisergico delle star internazionali. Insopportabile, no?



Eh. Qui siamo scattati in avanti, alla fine della parabola della band. È come dici: la ragione per cui nel suo ambiente non viene digerito è anche questa. Restando sullo scenario inglese: non è proletario, stupido e rissoso come i Gallagher, non è furbastro, modaiolo e icona adolescente come Damon Albarn, non si fa pizzicare in giro con le groupie e non tinge la noia di droga come il marmocchio che suonava nei Libertines e faceva l'alternativo fico senza saper suonare. È un magnifico borghese che vive il rock da professionista, è un buon intellettuale e un buon politico che si serve del rock da professionista. Un cortocircuito per gli anni Novanta e Duemila. È un uomo molto intelligente, senza nessuna voglia di cadere nei cliché del suo ambiente.



Nel tuo libro c'è un lavoro di ricerca pazzesco. Hai estrapolato un mucchio di informazioni e deduzioni riguardanti i testi dalle loro interviste e dagli articoli di giornale, cercando di utilizzare quel sesto senso che un critico vero dovrebbe sempre tenere come strumento di distinzione ma soprattutto hai sempre messo le mani avanti; io la penso così, dici, ma non è detto che sia vero. Lanci e rilanci ma ti ritrai e aspetti. Non temi che qualcuno si arrabbi per le tue intuizioni, che io chiamerei, poetiche?



Potrebbe succedere, ma non mi stupirebbe, e non mi stupisce, in generale, quando accade. Ho la sensazione, invecchiando, che a più di qualcuno piaccia farsi prendere per il culo, e in generale che più di qualcuno preferisca una falsa verità spacciata per fatto, o per dogma, a una verità possibile presentata come tale. La mia esperienza letteraria, e i miei studi, mi insegnano che molto spesso nella critica non c'è altro che l'arte della congettura, poggiata su argomentazioni plausibili, e l'arte dell'ipotesi; la critica è una scienza, da certi punti di vista, e in quanto tale è e deve restare renitente alla menzogna, alla forzatura o all'alterazione dei fatti. Per quanto possibile. Io ho preferito rispettare il mio pubblico – più ancora, stavolta, il pubblico della band – evitando di comportarmi come Zarathustra. La sensazione è che la critica rock sia ideale per chi assume toni alla Zarathustra. Peccato.



Douglas Adams e la sua trilogia che parte dalla 'Guida Galattica per Autostoppisti', Thomas Pynchon, George Orwell, Kurt Vonnegut, chi mi dimentico dei nomi che hanno influenzato il caro paranoide androide, o meglio che lo hanno folgorato nella sua comoda dimora oxfordiana?



George Monbiot! Il grande giornalista indipendente, ecologista e ambientalista, una delle penne più caustiche e uno dei massimi divulgatori di questioni climatiche. Noah Chomsky, anarchico e tumultuoso, sempre magnificamente documentato, trasversale e pungente. E ancora, i poeti T.S. Elliot, Dante e Larkin, o scrittori molto distanti tra loro come Levin e Okri, Kesey e Goethe. Incontrare con intelligenza gli scritti di TY significa sprofondare in un oceano di letture di alto livello. Gran bel viaggio.



'Trickster' lo chiami, un giocherellone, uno che fa scherzi e burle. Tutt'altro che un suicida potenziale come la BBC voleva farci credere che fosse quando uscì Creep nel '93 (canzone, che, come ricordi, la stessa emittente censurò perché troppo depressiva). Burle intelligenti e sibilline disseminate qui e là sui testi. Che tu hai 'snidato' a quanto pare...



Sì, è un "invertitore di realtà", qualcosa del genere. Probabilmente, se TY non avesse scritto un pezzo chiamato "Trickster", in una fase primitiva della sua carriera e della sua produzione, non ci sarei mai arrivato – questo è onesto ammetterlo. Aver dato vita a un pezzo come quello significa aver dimostrato, già in giovinezza, una certa consapevolezza delle proprie dinamiche comportamentali e intellettuali e aver già determinato certe strategie di comunicazione. Da quell'avatar molto deriva e discende. È una delle chiavi d'accesso al canzoniere di Yorke.



Ho letto ultimamente che i Radiohead non vogliono più fare album, solo EP, mi sembra che la notizia sia su ondarock.it di questi giorni. Un'altra burla? Tu eri sicuro che nel 2009 se ne uscissero con un nuovo album, e ora?



Io so che ogni volta che entrano in studio si ammazzano tra loro, da sempre. Che – proprio a testimonianza di quanto poco abbiano a che fare con i musicisti rock classici, e in generale con il loro ambiente – i Radiohead soffrono i mesi delle prove, in studio, e i mesi dei tour. Non mi stupisce che abbiano deciso, per adesso, di pubblicare solo singoli o al limite un EP. Si vede che la coesistenza in studio è andata, per l'ennesima volta, molto male. Ma come sempre, è plausibile pensare che torneranno sui loro passi, a un tratto, si chiuderanno in sala e ne usciranno con un disco. Oppure che abbiano trovato questo escamotage per fare un disco: pubblicare una collezione di singoli. Forse, mentalmente, è più facile fare uscire dieci, dodici 45 giri che un 33.

Ho la sensazione, questo sì – e l'ho scritto – che il prossimo sarà il terzultimo disco. Le ragioni sono varie; la prima è che il sound, da certi punti di vista, non muta dagli album gemelli, Kid A e Amnesiac; la seconda è che TY parla sempre più da gran padre di famiglia, piuttosto che da rockstar, e in ogni caso ha due bambini da crescere; la terza è che, appunto, so che la band non resiste alla convivenza in sala prove, e non da ieri. Non è un problema marginale...



Giochino della torre. Thom Yorke e Jim Morrison (chi legge il libro scopre perché). Thom Yorke e Jeff Buckley (questa è cattiva). Thom Yorke e Bob Dylan (anche qui, leggere libro per scoprire). Se lo salvi tutt'e tre le volte gli diamo il nobel per la letteratura, d'accordo?



Troppo facile... Meglio Yorke di Morrison perché almeno Yorke non s'è mai dato arie da poeta maudit, e non ha sporcato la sua musica col blues; io non ho nessuna simpatia per il blues. Morrison è una posa adolescenziale, una strategia di rottura da vagito alternativo; è la ribellione dei quindici anni. Yorke è rock adulto, consapevole, polemico, politico, letterario, esistenziale. Meglio Yorke di Buckley Junior perché, semplicemente, Buckley Junior ha registrato un album soltanto, un live e qualche pezzo finito assemblato nel disco postumo: gran voce, buon talento per le cover, molta anima, ma l'aria della maledizione di famiglia, passati i trenta, un po' mi spaventa. Sono finiti gli anni delle fascinazioni per i suicidi, a casa mia. Spero. In ogni caso, Yorke ha potuto interiorizzare e migliorare Buckley... Quanto a Dylan, eh. Io non sono un fan di Bob Dylan, forse dal libro non si capisce – almeno, non si dovrebbe capire. Lo trovo mostruosamente ripetitivo, e non mi affascina. È rilassante, anche quando fa il grande ribelle. È perfetto per quegli italiani che soffrono di complessi di inferiorità nei confronti degli americani: più siamo provinciali più preferiamo Dylan ai nostri grandi cantautori, da De Andrè a De Gregori, da Piero Ciampi a Franco Battiato. Per me Dylan è un'icona di un periodo e di una cultura che non mi appartengono, punto.

Ecco, ti dico quando perde Yorke. Ian Curtis o Thom Yorke? Ian Curtis, e i Joy Division. Tutta la vita. Due libri avrei voluto scrivere – tre, va – di critica rock. Il primo è andato. Il secondo me l'ha fregato Marco Di Marco, quello sui Joy Division. Lì avrei fatto veramente grandi numeri. Il terzo è un segreto, ma devo vedere se ho voglia di lavorare gratis o quasi per Arcana un'altra volta ancora. Da giovane mi riusciva meglio. Fare contenti duemila fan non paga le bollette, accidenti. Ma riscalda il cuore, e ti dà pace. Un pizzico di pace. Vediamo...













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