CINEMA E MUSICA
Giovanna Repetto
La forza delle donne: Roma
Non meritava di meno, questo film premiato a Venezia con il Leone d’oro, potendosi definire un capolavoro senza se e senza ma. Girato in un sobrio e intenso bianco e nero, ne ho gustato una versione sottotitolata che lascia intatte le voci, i mormorii, le parole appena accennate. Dove semplicità e drammaticità vanno di pari passo. Mi verrebbe da dire che è uno dei film più drammatici che io abbia mai visto. Drammatico ma non tragico, perché anzi è un inno alla resilienza, alla forza silenziosa e tenace delle donne, alla solidarietà femminile che a volte riesce a unire trasversalmente ambienti che sembrerebbero irriducibilmente lontani fra loro.
La drammaticità di cui parlo non è quella espressa in alcune scene, benché crude, che si riferiscono a un momento di repressione dei moti studenteschi (Città del Messico, 1971). No, ben più potente (e assai meno facile da rendere) è quella sommessa che si cela nel tran-tran quotidiano delle famiglie, dove giorno dopo giorno si fanno giochi di equilibrismo sul bordo dell’infelicità.
Lo sfondo è quello di una casa borghese (nel quartiere detto appunto Roma), non lussuosa ma prospera, in cui una giovane domestica, Cleo, insieme alla cuoca sua coetanea, si occupa di tutte le esigenze della famiglia, dalle pulizie all’accudimento dei quattro bambini e del cane. Le due ragazze sono di etnia india, come la maggior parte del personale di servizio da quelle parti. Se ne ricava l’immagine di un assetto tradizionale assunto come una legge di natura dai padroni e dai loro sottoposti, che vivono la loro condizione con una sorta di accettazione fatalistica.
Un bello spaccato della società messicana degli anni ’70, con i suoi contrasti. Misere favelas inondate dal fango e assordate dai roboanti megafoni del regime. Professionisti borghesi che ostentano enormi automobili da parcheggiare poi a stento in angusti cortili, dove l’onnipresente cacca del cane di famiglia (personaggio fondamentale anche il cane) svela simbolicamente il rovescio della medaglia. Ma l’occhio del regista va al di là della stratificazione sociale per contrapporre piuttosto il mondo degli uomini a quello femminile, in un confronto da cui gli uomini escono a pezzi.
Il film è pieno di dettagli da scoprire e gustare. Ne cito uno fra tutti. In un campo di addestramento all’aperto un folto gruppo di ragazzotti aitanti (fra cui futuri squadristi) si esercita con abilità nelle arti marziali. Ma quando un guru, abbigliato come un improbabile supereroe, li sfida in un semplice esercizio di equilibrio a occhi chiusi, tutti incespicano disorientati e smarriti. Da fuori, al margine estremo del campo, l’umile servetta india esegue l’esercizio con estrema facilità, senza che nessuno la noti. È l’equilibrismo delle donne, quotidiano e segreto.
Il regista, già noto da noi per film come I figli degli uomini e Gravity, ha scritto e sceneggiato questa storia ispirandosi alla storia vera della sua tata.
Roma
Messico, 2018
135 min
B/N
Regia: Alfonso Cuarón
Attrice protagonista: Yalitza Aparicio
La drammaticità di cui parlo non è quella espressa in alcune scene, benché crude, che si riferiscono a un momento di repressione dei moti studenteschi (Città del Messico, 1971). No, ben più potente (e assai meno facile da rendere) è quella sommessa che si cela nel tran-tran quotidiano delle famiglie, dove giorno dopo giorno si fanno giochi di equilibrismo sul bordo dell’infelicità.
Lo sfondo è quello di una casa borghese (nel quartiere detto appunto Roma), non lussuosa ma prospera, in cui una giovane domestica, Cleo, insieme alla cuoca sua coetanea, si occupa di tutte le esigenze della famiglia, dalle pulizie all’accudimento dei quattro bambini e del cane. Le due ragazze sono di etnia india, come la maggior parte del personale di servizio da quelle parti. Se ne ricava l’immagine di un assetto tradizionale assunto come una legge di natura dai padroni e dai loro sottoposti, che vivono la loro condizione con una sorta di accettazione fatalistica.
Un bello spaccato della società messicana degli anni ’70, con i suoi contrasti. Misere favelas inondate dal fango e assordate dai roboanti megafoni del regime. Professionisti borghesi che ostentano enormi automobili da parcheggiare poi a stento in angusti cortili, dove l’onnipresente cacca del cane di famiglia (personaggio fondamentale anche il cane) svela simbolicamente il rovescio della medaglia. Ma l’occhio del regista va al di là della stratificazione sociale per contrapporre piuttosto il mondo degli uomini a quello femminile, in un confronto da cui gli uomini escono a pezzi.
Il film è pieno di dettagli da scoprire e gustare. Ne cito uno fra tutti. In un campo di addestramento all’aperto un folto gruppo di ragazzotti aitanti (fra cui futuri squadristi) si esercita con abilità nelle arti marziali. Ma quando un guru, abbigliato come un improbabile supereroe, li sfida in un semplice esercizio di equilibrio a occhi chiusi, tutti incespicano disorientati e smarriti. Da fuori, al margine estremo del campo, l’umile servetta india esegue l’esercizio con estrema facilità, senza che nessuno la noti. È l’equilibrismo delle donne, quotidiano e segreto.
Il regista, già noto da noi per film come I figli degli uomini e Gravity, ha scritto e sceneggiato questa storia ispirandosi alla storia vera della sua tata.
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