RECENSIONI
Han Kang
Atti umani
Adelphi Edizioni, Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Pag. 208 Euro 19,00
Scagli la prima pietra chi ricorda la situazione politica della Corea del Sud nel 1980, dopo il colpo di stato di Chun Doo-hwan. Abituati come siamo a temere e deprecare la dittatura della Corea del Nord, dimentichiamo che la Corea del Sud è stata straziata da feroci dittature di destra che hanno soffocato nel sangue la protesta di tanti cittadini, per lo più giovani e giovanissimi.
È un romanzo duro da leggere, non solo perché intriso di sangue, di dolore e ingiustizia, ma proprio perché l’Autrice tratta questa materia senza abbandonare mai la tenerezza e il senso della poesia. Lei stessa svela, nell’ultimo capitolo, la parte autobiografica che la lega con un filo sottile ma tenace ai personaggi di questa storia. E racconta come abbia fatto ricerche, consultato documenti e archivi fotografici e visitato luoghi, e come si sia coinvolta fino a riempire il sonno di incubi.
Ogni capitolo è raccontato da un personaggio diverso, ma tutte le narrazioni convergono sul protagonista, il quindicenne Dong-ho, un ragazzino che come tanti coetanei si trova coinvolto in avvenimenti più grandi di lui. È lui il filo conduttore a cui si intrecciano le altre storie, spesso raccontate in seconda persona con l’effetto di mantenere un dialogo continuo con i personaggi.
All’inizio i corpi erano stati sistemati non nella palestra, ma all’Ufficio provinciale, nel corridoio della sezione reclami. C’erano due ragazze lì, entrambe con qualche anno più di te (…) Rimanesti a fissare con aria assente, dimenticando per un momento perché ci eri andato, mentre pulivano le facce insanguinate con un panno umido e si sforzavano di raddrizzare le braccia irrigidite, per distenderle lungo i fianchi dei cadaveri.
Fra cataste di morti ammassati in obitori di fortuna, Il ragazzino cerca l’amico che aveva marciato con lui durante la manifestazione contro i generali che hanno preso il potere. È così che comincia il racconto, via via ripreso da varie voci. C’è tutto un cercarsi, nelle ore drammatiche che vedono moltiplicarsi le violenze contro la folla inerme. I genitori cercano i figli, i ragazzi si cercano fra loro. Il numero dei cadaveri aumenta a dismisura, in un incubo senza fine che si alterna ai ricordi quieti di una vita normale in quello che ormai sembra un altro mondo, perso per sempre. E c’è un continuo interrogarsi, perché dalla sorpresa per tanto orrore nascondo domande sulla natura umana e in definitiva sulla propria natura. Domande scomode per tutti.
I censori avevano cancellato alcuni righi del paragrafo seguente. “Tenendo a mente questo, resta da chiedersi: che cos’è l’umanità? E cosa dobbiamo fare per far sì che essa sia una cosa piuttosto che l’altra?” Eun-sook ricordava l’esatto spessore della linea che era stata tirata su quelle frasi.
Finita la mattanza, la vita riprende ma ne esce stravolta. Nei sopravvissuti lo strazio si perpetua all’infinito, non soltanto per i segni indelebili delle torture fisiche e morali e per gli incubi che tormentano i sonni, ma specialmente a causa dei rimorsi che scavano dentro come tarli. Ognuno si sente in colpa per qualcosa che ha detto o non ha detto, che ha fatto o non ha fatto. La madre che non ha saputo trattenere il figlio, il ragazzo che ha abbandonato il compagno, l’organizzatore che ha dato l’ordine sbagliato. Un tormento intimo che a distanza di tempo può condurre al suicidio.
L’Autrice non si è risparmiata nulla e non risparmia nulla al lettore. La crudezza dei fatti diventa tanto più straziante quanto più viene accostata, passo dopo passo, alla tenerezza verso i personaggi, alla ricostruzione minuziosa delle loro piccole faccende quotidiane e dei loro moti intimi. Dalla sua descrizione essi appaiono come piccoli eroi ingenui senza nulla di epico, per lo più giovani o adolescenti incapaci di sparare anche quando sono armati, ignari e fragili davanti alla brutalità degli assassini. L’arma della poesia, nelle sue mani, è quella che fa più male.
di Giovanna Repetto
È un romanzo duro da leggere, non solo perché intriso di sangue, di dolore e ingiustizia, ma proprio perché l’Autrice tratta questa materia senza abbandonare mai la tenerezza e il senso della poesia. Lei stessa svela, nell’ultimo capitolo, la parte autobiografica che la lega con un filo sottile ma tenace ai personaggi di questa storia. E racconta come abbia fatto ricerche, consultato documenti e archivi fotografici e visitato luoghi, e come si sia coinvolta fino a riempire il sonno di incubi.
Ogni capitolo è raccontato da un personaggio diverso, ma tutte le narrazioni convergono sul protagonista, il quindicenne Dong-ho, un ragazzino che come tanti coetanei si trova coinvolto in avvenimenti più grandi di lui. È lui il filo conduttore a cui si intrecciano le altre storie, spesso raccontate in seconda persona con l’effetto di mantenere un dialogo continuo con i personaggi.
All’inizio i corpi erano stati sistemati non nella palestra, ma all’Ufficio provinciale, nel corridoio della sezione reclami. C’erano due ragazze lì, entrambe con qualche anno più di te (…) Rimanesti a fissare con aria assente, dimenticando per un momento perché ci eri andato, mentre pulivano le facce insanguinate con un panno umido e si sforzavano di raddrizzare le braccia irrigidite, per distenderle lungo i fianchi dei cadaveri.
Fra cataste di morti ammassati in obitori di fortuna, Il ragazzino cerca l’amico che aveva marciato con lui durante la manifestazione contro i generali che hanno preso il potere. È così che comincia il racconto, via via ripreso da varie voci. C’è tutto un cercarsi, nelle ore drammatiche che vedono moltiplicarsi le violenze contro la folla inerme. I genitori cercano i figli, i ragazzi si cercano fra loro. Il numero dei cadaveri aumenta a dismisura, in un incubo senza fine che si alterna ai ricordi quieti di una vita normale in quello che ormai sembra un altro mondo, perso per sempre. E c’è un continuo interrogarsi, perché dalla sorpresa per tanto orrore nascondo domande sulla natura umana e in definitiva sulla propria natura. Domande scomode per tutti.
I censori avevano cancellato alcuni righi del paragrafo seguente. “Tenendo a mente questo, resta da chiedersi: che cos’è l’umanità? E cosa dobbiamo fare per far sì che essa sia una cosa piuttosto che l’altra?” Eun-sook ricordava l’esatto spessore della linea che era stata tirata su quelle frasi.
Finita la mattanza, la vita riprende ma ne esce stravolta. Nei sopravvissuti lo strazio si perpetua all’infinito, non soltanto per i segni indelebili delle torture fisiche e morali e per gli incubi che tormentano i sonni, ma specialmente a causa dei rimorsi che scavano dentro come tarli. Ognuno si sente in colpa per qualcosa che ha detto o non ha detto, che ha fatto o non ha fatto. La madre che non ha saputo trattenere il figlio, il ragazzo che ha abbandonato il compagno, l’organizzatore che ha dato l’ordine sbagliato. Un tormento intimo che a distanza di tempo può condurre al suicidio.
L’Autrice non si è risparmiata nulla e non risparmia nulla al lettore. La crudezza dei fatti diventa tanto più straziante quanto più viene accostata, passo dopo passo, alla tenerezza verso i personaggi, alla ricostruzione minuziosa delle loro piccole faccende quotidiane e dei loro moti intimi. Dalla sua descrizione essi appaiono come piccoli eroi ingenui senza nulla di epico, per lo più giovani o adolescenti incapaci di sparare anche quando sono armati, ignari e fragili davanti alla brutalità degli assassini. L’arma della poesia, nelle sue mani, è quella che fa più male.
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