RECENSIONI
Marcelo Figueras
Aquarium
L'asino d'oro, Traduzione di Gina Maneri, Pag. 320 Euro 14,00
Il silenzio e la parola. Il paradossale dilemma della comunicazione fra verbale e non verbale. E poi l’altro paradosso, di trovare solo quello che non si cerca. Non è un manuale filosofico. È un romanzo, e anche piuttosto interessante. Quelli che ho citato sono alcuni dei temi che si snodano e si intrecciano con molti altri. L’acquario del titolo è emblematico in diversi modi. Luogo materialmente presente nella storia, e in cui prima o poi passano tutti i protagonisti, ma anche metafora. I personaggi si soffermano a osservare l’acquario, ma nello stesso tempo ci sono dentro. Si muovono come i pesci nell’acqua, talvolta sfiorandosi o incontrandosi, quasi sempre in modo casuale anche se credono di avere una meta. E come i pesci sono costretti a una qualche forma di silenzio.
Ulises e Irit non hanno una lingua comune. Lui è argentino e conosce praticamente solo lo spagnolo, lei conosce solo l’ebraico e l’inglese. Per comunicare devono usare i loro corpi nell’universale linguaggio dell’amore, ma devono anche inventare sentieri inconsueti e tortuosi che li portino vicino a una comprensione di ciò che vogliono condividere, che può essere arte, poesia, senso della vita. Non si tratta mai di una traduzione letterale, c’è sempre uno spazio per l’equivoco e il mistero, ma a loro sta bene così.
David Kaufman adora una moglie che ha smesso di parlare. Non è possibile diagnosticare il problema, ma è invece possibile seguire l’esile traccia che si snoda in un labirinto mentale noto a lei sola. Eppure anche lui non si arrende e si incammina.
Danny è un bambino reso muto da un trauma, cosa che non stupisce nei giorni dell’Intifada che insanguina la Palestina.
Sono storie sommesse, eppure lo sfondo è traboccante di violenza e di paura. Anche la paura è qualcosa che rende difficile la comunicazione scatenando equivoci e pregiudizi, e anche il momento più banale può trasformarsi in tragedia.
Siamo in Israele. Un paese piccolo piccolo, circondato da una quantità di nemici. Qui nessuno sale su un autobus senza chiedersi se salterà in aria. Qui chi non è paranoico è rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché è matto da legare. Meglio che capisca che qualunque gesto intempestivo può essere interpretato come un atto di violenza, e di conseguenza suscitare violenza…
Questo viene detto a Ulises quando si reca in Israele per recuperare un rapporto con i figli che la moglie gli ha sottratto andandosene via. Anche questa ricerca alla cieca, con ben pochi elementi a disposizione, assomiglia al movimento di un pesce prigioniero in un acquario.
Ogni tanto l’autore si concede di metacomunicare rivolgendosi direttamente ai lettori per metterli a parte delle sue scelte e commentarle. Lo fa con garbo e con un tocco di originalità, ma non riesce a evitarmi di provare un certo fastidio. Non mi piace che mentre leggo un romanzo mi si dica che i protagonisti sono personaggi di un romanzo, e tanto meno che lo scrittore può fargli fare questo e quello, e magari questo al posto di quello. Ma non si può negare che la storia sia intrigante. Coinvolge il lettore moltiplicando le sfide e ingaggiando le sue emozioni su un terreno che non è mai banale. Da una pagina all’altra non sai se ti toccherà lasciarti cullare dalla poesia o atterrire dalla tragedia. Notevole è la scena in cui Ulises e Irit percorrono una strada in macchina in mezzo a tiri incrociati di sassi, molotov e armi da fuoco.
La situazione è da incubo: i ragazzi che sfidano i fucili a sassate, i soldati che si comportano come se i veicoli fossero invisibili, i conducenti che giocano a battere le pallottole in velocità.
L’Autore non prende posizione, non fa politica, ma con i toni sommessi dei sentimenti lancia un potente grido contro la violenza e la guerra.
Fra l’onirico e il simbolico, un elemento geniale è la presenza di un gigantesco narvalo ospitato nell’acquario: maestoso come un mito, improbabile come un unicorno, primordiale come l’istinto che conduce a perpetuare l’amore oltre la morte, contro ogni logica.
di Giovanna Repetto
Ulises e Irit non hanno una lingua comune. Lui è argentino e conosce praticamente solo lo spagnolo, lei conosce solo l’ebraico e l’inglese. Per comunicare devono usare i loro corpi nell’universale linguaggio dell’amore, ma devono anche inventare sentieri inconsueti e tortuosi che li portino vicino a una comprensione di ciò che vogliono condividere, che può essere arte, poesia, senso della vita. Non si tratta mai di una traduzione letterale, c’è sempre uno spazio per l’equivoco e il mistero, ma a loro sta bene così.
David Kaufman adora una moglie che ha smesso di parlare. Non è possibile diagnosticare il problema, ma è invece possibile seguire l’esile traccia che si snoda in un labirinto mentale noto a lei sola. Eppure anche lui non si arrende e si incammina.
Danny è un bambino reso muto da un trauma, cosa che non stupisce nei giorni dell’Intifada che insanguina la Palestina.
Sono storie sommesse, eppure lo sfondo è traboccante di violenza e di paura. Anche la paura è qualcosa che rende difficile la comunicazione scatenando equivoci e pregiudizi, e anche il momento più banale può trasformarsi in tragedia.
Siamo in Israele. Un paese piccolo piccolo, circondato da una quantità di nemici. Qui nessuno sale su un autobus senza chiedersi se salterà in aria. Qui chi non è paranoico è rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché è matto da legare. Meglio che capisca che qualunque gesto intempestivo può essere interpretato come un atto di violenza, e di conseguenza suscitare violenza…
Questo viene detto a Ulises quando si reca in Israele per recuperare un rapporto con i figli che la moglie gli ha sottratto andandosene via. Anche questa ricerca alla cieca, con ben pochi elementi a disposizione, assomiglia al movimento di un pesce prigioniero in un acquario.
Ogni tanto l’autore si concede di metacomunicare rivolgendosi direttamente ai lettori per metterli a parte delle sue scelte e commentarle. Lo fa con garbo e con un tocco di originalità, ma non riesce a evitarmi di provare un certo fastidio. Non mi piace che mentre leggo un romanzo mi si dica che i protagonisti sono personaggi di un romanzo, e tanto meno che lo scrittore può fargli fare questo e quello, e magari questo al posto di quello. Ma non si può negare che la storia sia intrigante. Coinvolge il lettore moltiplicando le sfide e ingaggiando le sue emozioni su un terreno che non è mai banale. Da una pagina all’altra non sai se ti toccherà lasciarti cullare dalla poesia o atterrire dalla tragedia. Notevole è la scena in cui Ulises e Irit percorrono una strada in macchina in mezzo a tiri incrociati di sassi, molotov e armi da fuoco.
La situazione è da incubo: i ragazzi che sfidano i fucili a sassate, i soldati che si comportano come se i veicoli fossero invisibili, i conducenti che giocano a battere le pallottole in velocità.
L’Autore non prende posizione, non fa politica, ma con i toni sommessi dei sentimenti lancia un potente grido contro la violenza e la guerra.
Fra l’onirico e il simbolico, un elemento geniale è la presenza di un gigantesco narvalo ospitato nell’acquario: maestoso come un mito, improbabile come un unicorno, primordiale come l’istinto che conduce a perpetuare l’amore oltre la morte, contro ogni logica.
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