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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Chico Buarque

Budapest

Universale Economica Feltrinelli, Pag. 138 Euro 7,00
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Un po' di anni fa, Fuori orario mandò in onda un film in ungherese, ambientato tra vacche, stalle e quant'altro si rimedia nella "pustza" (quella magiara con la "t", non quella italiana con la "z"( A. Noschese)). Lo registrai per sbaglio, e me lo tenni anni, malgrado fosse privo di sottotitoli - e dunque incomprensibile -, per puro feticismo: tant'è bella la lingua. La più bella del mondo, almeno tra quelle che ho sentite.

Per questa ragione, notata la ristampa in economica del romanzo di Buarque (universalmente noto come musicista), che proprio del curioso rapporto fra il protagonista e la lingua (magiara, ma non solo) tratta, l'ho comprato, e letto senza pentirmene. Tanto per orientare il Lettore, la storia, all'osso, narra di un tale Josè Costa che, per una somma di circostanze, vive a Budapest come Kosta Szoze due periodi della sua vita, uno breve e uno lungo. Anzi, vive due vite - una nella capitale ungherese, una a Rio de Janeiro - scandite e modellate dalle due lingue.

E' proprio l'intreccio degli idiomi, tuttavia, il dato affascinante del testo. M'ha fatto venire in mente, subito, il breve esordio di Franco Lucentini, I compagni sconosciuti: in questo si narra di un italiano fuori d'Italia, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, in una situazione di confusione linguistica che è segno anche di complessi, difficili, feriti rapporti affettivi - e dove la lingua ha un peso materiale, corporale, ben forte, visto che intendersi può significare sopravvivere, dunque ogni parola ha la consistenza delle cose che riesce a far ottenere (anche ne La tregua c'è questo aspetto, con una carica di vitalità più marcata). Nel libro dell'Autore brasiliano, ovviamente, queste tragiche urgenze mancano: piuttosto, esso serba, più che la riflessione sui modi in cui la parola acquista un valore materico, la loro declinazione. Glenn Gould, non riuscendo a trovare l'impostazione giusta per un brano (credo) di Beethoven, trasferì accanto al pianoforte due televisori, l'aspirapolvere, altri elettrodomestici, insomma tutto quel che, facendo bordello, poteva impedirgli di udire il suono dello strumento - e riuscì a ridurre a semplice gesto, e dunque a meglio capire e organizzare, spogliandola del suo "senso", l'ossatura della musica. E notava Walter Siti che la struttura di Teorema è così potente da sopportare anche le sciatterie stilistiche. Buarque mette in scena un ampio arco di possibilità materiche e affettive delle parole: il suo personaggio, come in Glenn Gould, rende conto - rendendosi conto - del linguaggio come gesto linguistico, come cosa che è vitale e resa dalla vita sensata, e però mai pienamente significativa, con un residuo fisso di oggettualità: le parole s'incagliano sul loro puro materiale sonoro - sia quando fanno parte della lingua incomprensibile al personaggio, sia quando lui torna a parlare la propria lingua, ma questa gli risulta estranea. E sempre s'insiste sui tratti asemantici - quelli che apparentano la lingua alla musica - delle parole: onomatopee, risonanze, bisticci, pseudoanagrammi che richiamano palindromi, iconicità (parole come disegni infantili), accentazioni, pronunce. E infine c'è l'insignificanza della parola-slogan omologata (gli anglismi o anglicismi buoni ormai in tutto il mondo, e dunque appartenenti a un'antilingua inesistente, come quella burocratica deprecata da Calvino - come certe vodke fatte in Italia dagli improbabili nomi desinenti in -ov o -ski) e il gesto puro dell'emissione vocale, la diretta corporeità: più d'una volta le parole vengono lette sulle labbra altrui, ridotte alla fisiologia basale, alla coerente fatica dei tendini e dei muscoli. Viceversa, i corpi, la loro solidità, la loro sensualità, i loro affetti, modulano il rapporto col senso e con la lingua: le parole possono venir accarezzate, e perdite e guadagni emotivi sono resi tramite guadagni o remissioni nel linguaggio, cosicché l'allontanamento dall'amata vale l'oblio dell'idioma di lei, o il tentativo di cancellarlo. E il ritorno a certe parole viene salutato somigliandolo alla ritrovata scapolaggine di un uomo, che dunque riprende a frequentare le sue ex.

Connesso a questo c'è la combinatoria dei modi in cui il protagonista José Costa (nome che corrisponde a uno e centomila, come Mario Rossi, nome anonimo dunque, figurativamente analogo all'omino sulle porte dei gabinetti) sfugge alla parola veicolo d'identità: è un "ghost-writer" che, a pagamento e senza firmarle, scrive presunte autobiografie di chi può permettersi di pagarlo, e articoli, infine un libro di poesie; va nei bar o nelle librerie ad ascoltare i commenti ai suoi scritti - naturalmente senza rivelarsi; chiede ai letterati presuntivi di firmare dediche sui volumi che non hanno scritto e di cui è l'autore. L'unica volta che prova ad abbandonare la maschera, e dichiararsi, viene punito con l'incredulità. E suo figlio, giovane uomo, non lo riconosce, una volta che è tornato in Brasile dopo anni d'Ungheria.

Questo materiale, e forse anche meno, nelle mani d'uno scrittore "sudamericano" (cioè: con le qualità barocche e florissant, realistico-magiche che si sogliono riconoscere ai letterati del "cono sud") avrebbe generato un bel mattone di almeno cinque-seicento pagine. Buarque ne adopra centotrenta: così compresso, il testo sembra una sinfonia di Ciaikovski ridotta alle dimensioni e allo spettro dello Schönberg dei lavori seriali (o ai pezzi per orchestra di Webern) - dove i soggetti paiono, come diceva Donatoni, andare avanti e indietro come stantuffi (Krabbe è il nome d'uno degli autori che pagano Josè per farsi scrivere l'autobiografia, e "crab canon" ossia "cancrizans" è un artificio del contrappunto). S'intuisce che l'Autore avesse un'ansia creativa che non poteva venir soddisfatta da taglie più abbondanti. E però s'avverte un gran via vai - senza una massa a fare da volano - che è il pregio ritmico ma il difetto armonico della narrazione: e solo per il talento dell'Autore non si risolve in un collasso, in un album di figurine appiccicate in sequenze tanto brillanti quanto vuote. Perciò il giudizio orchesco è poco meno che perfetto.



di Giulio Lascàris


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Gustoso


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Conosciuto per essere uno dei più noti autori ed interpreti della musica popolare brasiliana, insieme a Vinicius de Moraes e Tom Jobim, è legato all'Italia per la sua permanenza nel nostro paese e per essere stato tradotto e re -interpretato da moltissimi artisti come Mina, Enzo Jannacci, Mia Martina e altri.

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