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ATTUALITA'

Leonardo Tonini

Chi si scandalizza è male informato

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Su Il Mostro di St. Pauli, di Fatih Akin

Che cosa c’è di sconvolgente nel film di Akin?

Quello che sconvolge è che qualcuno definisca sconvolgente questo film. Un’altra cosa sconvolgente è che si sia fatto il nome di Tarantino.

Quali sono le differenze con Tarantino?

La prima differenza è che Tarantino fa film hollywoodiani e Il Mostro di St. Pauli è un film interamente tedesco. Lo stesso regista in una intervista dice di aver fatto riferimento a dall'espressionismo tedesco, da Nosferatu e da M Il mostro di Dussedorf. Ha inoltre insistito sul décor anni 70 ed è riuscito a ricreare il lato negativo di quella generazione tedesca, uscita dalla guerra e dal tragico dopoguerra tedesco.

Cosa intendi per “lato negativo”?

La Germania, come anche i paesi nordici, dà una impressione di efficienza, soprattutto nella visione che ne abbiamo noi italiani che siamo convinti che nulla funzioni nel nostro paese. In effetti, visitando il centro di una città tedesca, l’impressione che si vuole dare è quella. Ma basta grattare un po’ sotto la superficie e saltano fuori i problemi. Anzi, il problema: la noia. Che non è non aver niente da fare, ma è non sapere perché si sta facendo qualcosa. Questo è tipico delle democrazie evolute e dei paesi a religione protestante. Se negli Stati Uniti questo disagio viene mandato all’esterno, si cerca un colpevole su cui scaricare le proprie frustrazioni, in Germania questo non è possibile. Non dico niente di nuovo: più una società è basata sull’efficienza (o sul sogno dell’efficienza) e più crea scarti.

È difficile empatizzare con il protagonista.

È un’altra baggianata che ho letto a proposito di questo film. Prima di tutto vorrei sapere chi comanda di empatizzare, cioè immedesimarsi; perché mai dovremmo essere in empatia con un personaggio cinematografico? Non è una legge del cinema, al massimo è uno stratagemma di marketing. E poi Honka nel film appare più come un malato che come un vero cattivo, un disperato che non sa controllare la sua rabbia, un alcolizzato all’ultimo stadio.

Ma è un serial killer.

Serial killer perché ha ammazzato quattro donne, va bene, ma che tipo di serial killer? Qui si vede la grande differenza con il cinema degli Stati Uniti. Il serial killer in America è fatto per essere accattivante, ammazza 100 donne, si incrudelisce da lucido, è un sadico. I suoi omicidi sono installazioni d’arte, le vittime sono per lo più belle ragazze, trova sempre modi raffinati, oppure è raffinata la regia, la ripresa, la musica. Tarantino lo sa bene e infatti prende in giro questo modo del cinema hollywoodiano di descrivere i serial killer. Esagera nei toni, esagera nella cattiveria, nella crudezza, fa sua la lezione dei B-movie più trash.

E Akin?

Akin sembra voler fare un film realista, ma non è così. Chiaramente lui usa quella storia per dire altro.

Che cosa?

Innanzi tutto parla della Germania e di come lui, straniero e integrato, vede i tedeschi. Non voglio dire che li vede come serial killer o come alcolisti degradati, ma ci mostra tutto un campionario di tipi tedeschi. La cattolica crocerossina, il barista stronzo, il ragazzo inquieto che entra nel bar per trovare un po’ di emozioni, l’ex SS, sono tutti ritratti di uomini e donne germanici. Tipicamente germanici. In Italia abbiamo anche noi gli stronzi e le crocerossine, ma lo sarebbero in maniera diversa, farebbero cose diverse, atteggiamenti diversi.

E Honka?

Honka è il malessere, l’inquietudine, la rabbia fuori controllo, che è la peggior paura di un popolo che, come diceva Lenin, scende in strada per fare la rivoluzione, ma sta attento a non calpestare le aiuole. Il film poi è davvero pieno di simboli (come ogni film che si rispetti); i cadaveri, per esempio. Non seppelliti, ma nascosti. E questi cadaveri puzzano terribilmente, si possono nascondere i cadaveri, ma non la puzza. Un problema tedesco. Poi c’è l’ossessione del sesso, un sesso mai portato a compimento.

Che rapporto c’è con La sposa turca?

Direi che La sposa turca indaga sulla difficoltà di integrazione, parla di due forzati a stare insieme da motivi completamente diversi, accomunati solo dall’essere sopravvissuti al proprio suicidio. Con questo film invece Akin cerca di esplorare i tedeschi e lo può fare in quanto straniero che ha avuto modo di crescere da tedesco e allo stesso tempo di frequentare non tedeschi. Li conosce, ma senza l’effetto che David Foster Wallace descrive in Questa è l’acqua.

Cioè?

Cioè da pesce che non sa che esiste anche altro oltre all’acqua, che non ha termini di paragone.

Sembra che tu ce l’abbia con i tedeschi.

Assolutamente no. Potrei avercela con chi non ammette l’esistenza di un lato oscuro nella storia del proprio paese, o della sua cultura in senso lato. Una volta avevo conosciuto una ragazza canadese, erano i tempi della prima guerra in Iraq. Lei sosteneva che l’unico motivo che aveva spinto gli Stati Uniti a entrare in guerra contro Saddam era che gli iracheni avevano chiesto a gran voce l’intervento americano. Non c’era verso di farla ragionare, ero io contro i giornali e la televisione. Era ovviamente anche molto contenta del suo paese così democratico e nemmeno sospettava che il Canada fosse il secondo esportatore mondiale di armi verso il Medioriente.  In Germania c’è e c’è stata una forte critica sociale, una critica alla mentalità tedesca, una critica al nazismo. Noi in Italia siamo più indietro su questa cosa: non abbiamo fatto completamente i conti con il fascismo e crediamo ancora di essere brave persone, a parte qualche mela marcia.

La critica dice che Akin ha voluto descrivere il degrado umano e che “scava negli abissi della perversione”

Niente di tutto questo. Si è fatto il nome di Dogman, seppur riconoscendo che in quel film Garrone ha dato una lettura psicologica e qui no. Io direi che siamo più vicini a Parasite, la lettura è sociologica, ma nel profondo. La ricostruzione tanto accurata di Akin è problematica, è puramente decorativa, non si fa cenno al boom economico della Germania, al terrorismo, non c’è nessun riferimento storico diretto all’attualità di quegli anni. Eppure Honka appare come una vittima di qualcosa, senza che si voglia con questo trovare una giustificazione a quello che fa. Nello stesso bar (Il guanto d’oro, solo un caso?) troviamo chi è finito nel campo di concentramento perché comunista e l’SS che ce l’ha mandato. Tutti bevono gomito a gomito, intontiti dall’alcol e dal fumo. Che cos’è questo fumo? che cos’è questo alcol che stordisce?

Non ne stai dando una lettura troppo simbolica?

Il cinema è l’arte dove ogni cosa prende una dimensione simbolica. Il mito che il cinema possa rappresentare la realtà è un falso, un equivoco. Bertolucci porta la Cina a Hollywood, una nazione che nel 1987 era quasi sconosciuta negli Stati Uniti. Accenna al ruolo degli europei, mostra i maoisti. L’ultimo imperatore è sì un kolossal hollywoodiano, ma è un film che mostra come nell’arco di una sola vita si possa passare dal medioevo all’età contemporanea. Ma c’è di più. Un’immagine rappresenta un’immagine, il cinema rappresenta se stesso. La fotografia di un albero non è un albero, non è nemmeno un possibile albero. E il film di Akin non è e non vuole essere un documentario, è cinema.

Una scena che ti è rimasta impressa?

Verso la fine, quando nei bagni de Il guanto d’oro il vecchio nazista, guercio e con l’apparecchio acustico, umilia il giovane che ha come unica colpa il fatto di essere giovane, accompagnato da una bella fanciulla e di essere nato dopo la fine della guerra. Deve essere stata dura per chi ha passato la giovinezza con un ruolo che prometteva di regalarti la soggettivazione granitica del dominatore, trovarsi a essere dei falliti vecchi e sopravvissuti alla sconfitta della Storia, ma sicuramente non dura quanto per le sue vittime nel campo di concentramento.

Un’umanità sconfitta, quindi?

Una generazione sconfitta. Le vittime di Honka sono vecchie prostitute devastate dall’alcool, gli avventori del bar sono tutti anziani malvissuti. Forse Akin pensava alle varie generazioni di turchi in Germania, bisognerebbe chiederlo a lui. La prima generazione di immigrati è per necessità (per isolamento) molto legata alle tradizioni del proprio paese, ma le successive il più delle volte conoscono il paese dei propri genitori per sentito dire e spesso non ne sanno la lingua. Non so, ma, ripeto, l’intento di Akin non era quello di fare un documentario e nemmeno un film neorealista. Si è fatto il nome di Fassbinder, ma io ci vedo di più un Ulrich Seidl meno assoluto. Credo in ogni caso che Akin non abbia le competenze e nemmeno la voglia di fare della critica alla società, a lui interessa principalmente fare del buon cinema. L’epoca dei registi intellettuali engagé è finita da un pezzo. Non è detto che sia un male.



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