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CLASSICI

Alfredo Ronci

Delinquente o “delinquente”?: “La traduzione” di Silvano Ceccherini.

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Scrisse di lui, nei primissimi anni sessanta Bàrberi Squarotti: Anche Silvano Ceccherini (…) utilizza moduli cassoliniani, ma del Cassola espositore di sentimenti, che in lui finisce per prevalere sull’aspetto dell’assenza oggettiva di fronte alla rappresentazione della vita del carcere, pur presente, e attivo…
In pratica il critico ci dice, con molto garbo, che la prima essenza della scrittura di Ceccherini è il carcere, mentre l’aspetto evidente, ma secondario, è la struttura cassoliniana degli scritti. Che detto così non ci sarebbe nulla di male, anche se poi sul giudizio di Ceccherini sono state detto molte cose (una che mi ha sorpreso è quella che la sua arte assomiglierebbe al francese Genet. Ma davvero lo pensiamo e soprattutto perché parla del carcere e di come si vive all’interno di esso? Di sicuro non c’è alcun riferimento all’aspetto omoerotico delle storie anche se, e qui mi si perdoni, ma lo dico con la convinzione che quello che si è scritto è anche sacrosantemente veritiero, certe descrizione che il Ceccherini fa di alcuni giovani carcerati e di certi loro “corpi” potrebbero anche essere scambiati per appunti omoerotici).
Ma torniamo a noi, o meglio, all’appunto di Squarotti sui moduli cassoliniani di Ceccherini. Per farlo dovremmo quanto meno portare degli appunti o dei passaggi degli scritti, ma in fondo non risolverebbe, perché al di là di certe sensazioni (personalmente non ritengo assolutamente che il Ceccherini ricordi Cassola, ma ognuno vive le esperienze letterarie con le proprie convinzioni e le proprie emozioni) la prosa dello scrittore toscano sembra andare in tutt’altra direzione e in più il Ceccherini non sembra subire più di tanto certe dualità letterarie del collega.
Ma se si cita Cassola parlando di Ceccherini è perché, quando La traduzione arrivò in libreria, nel 1963, l’editore Feltrinelli scriveva: Quando Carlo Cassola, alcuni mesi fa, ci inviò il dattiloscritto di questo romanzo, accompagnandolo con una lettera raccomandatoria dalla quale apprendemmo che l’autore, Silvano Ceccherini, si trovava in carcere da quasi vent’anni (ci si trova tutt’ora) non riuscimmo a reprimere un moto di diffidenza. Non abbiamo mai avuto molta fiducia nella letteratura dei non-letterati.
Da quello che l’editore ci racconta (non tutto però mi sembra veritiero) scopriamo appunto che fu il Cassola a scoprire Ceccherini, anche se questo non vuol dire che se uno scrittore abbia delle preferenze per un altro, quest’altro sia poi molto vicino allo scopritore.
Detto ciò vediamo un po’ di cosa tratta La traduzione. Il soggetto di questo romanzo non consiste in altro che nel trasferimento (traduzione appunto) di un vecchio carcerato dal penitenziario di Civitavecchia a quello di Saluzzo, in Piemonte. Tutto qua.
Ma cosa fa diverso questo testo e in qualche modo lo contraddistingue dal resto delle letture di carcere? Non sembra strano, ma sulla questione le stesse note di copertina della Feltrinelli sembrano adattarsi perfettamente all’uopo: Ma la più grossa meraviglia, ripetiamo, viene dal fatto che l’autore, il quale pur aveva ogni diritto di sfogarsi, di autocommiserarsi (vent’anni di carcere! Una vita intera!) abbia invece avuto la forza e il coraggio di preservare la propria limpida intelligenza dal fallimento e dal marasma. Uno scrittore nasce sempre così: a duro prezzo, sempre.
E l’intelligenza a cui si riferisce la nota è distribuita durante tutto il percorso letterario. Come quando si parla del trascorso culturali di Olgi (il carcerato protagonista): Quindi avviarono una piccola conversazione d’inglese, perché anche Olgi aveva studiato l’inglese. Poi parlarono in francese, perché anche Olgi aveva studiato il francese. E infine in spagnolo, perché anche Olgi aveva studiato lo spagnolo. Invece in tedesco Olgi conosceva soltanto le brutte parole arbeit, scheisse, kaputt…
Ed è assolutamente essenziale il rapporto tra Olgi e quello che lo stesso protagonista chiama l’ingegnere. Che tra una citazione filmica e una musicale e letteraria così enuncia: Ho vinto il terrore della morte, ma non l’amore per la vita, anche per ‘questa vita’. E’ una dolce cosa la vita. Questo parlare confidenziale che adesso facciamo; occuparsi di Socrate e di Kafka, degli antichi greci e dei moderni cinesi, entusiasmarsi per un’impresa spaziale come per la bellezza di una donna, anche se vista sulla copertina di una rivista; d’una partita di calcio, d’una lirica di Lorca; e tutto, tutto ciò che è nella vita, nel mondo, compreso questo giorno, diverso dagli infiniti giorni che l’hanno preceduto e che lo seguiranno; riflettere che dovrò accomiatarmi da tutte queste cose mi causa malinconia.
Verrebbe da dire un’analisi perfetta che sembra mischiare perfettamente il sacro e il profano. Un’analisi che però non evita, alla fine, la morte del protagonista. Che non la si vuole, ma avviene per semplice amore della vita.




L’edizione da noi considerata è:

Silvano Ceccherini
La traduzione
Feltrinelli



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