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Il Paradiso degli Orchi
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CLASSICI

Alfredo Ronci

Dubbi e certezze; un romanzo che richiede attenzione: “Cima delle nobildonne” di Stefano D’Arrigo.

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La bugia, in quanto costruzione linguistica, è in ogni momento minacciata dalla verità che il più piccolo lapsus può riportare a galla: paradossalmente la verità parla, allora, attraverso l’errore. E’ la più povera, la più quotidiana, la meno protetta, la più circostanziale forma della fiction ed è il banco di prova di ogni possibile narrazione, perché anche il più “veritiero”, il più fedele dei racconti nasce da una deformazione preliminare, è costruito e articolato in base a parametri di coerenza interna, alle norme di una retorica territoriale”.
Queste sono le parole che Mario Lavagetto usava nell’introduzione al suo volume La cicatrice di Montaigne e che ci paiono quasi perfette nel raccontare i problemi del secondo, e purtroppo ultimo, romanzo di Stefano D’Arrigo.
Non è facile parlare di Cima delle nobildonne e sinceramente non è facile nemmeno raccontare qualcosa di concreto su D’Arrigo. Però è interessante svirgolare su ciò che è stato scritto da Walter Pedullà, storico e critico autorevole della nostra letteratura novecentesca, sulle origini del romanzo, quando ancora erano fogli dattiloscritti e non un romanzo compiuto.
In poche parole: viene chiesto al critico, dallo stesso D’Arrigo, di esprimersi molto onestamente sulla linea del romanzo e soprattutto sul verificare che ci siano dei punti favorevoli per la pubblicazione. La risposta di Pedullà, dopo circa quattro ore di lettura in casa dell’amico scrittore, fu questa: Ero sconcertato ed ero conquistato. Ma mi fermai subito, incerto dopo immediato consenso. Capivo e non capivo. Questo è una qualità o un limite per un’opera d’arte? “Per ora mi piace, e per ora basta” mi dissi, ma invece cominciò il rovello.
Non stiamo dietro a tutte le argomentazioni successive di Pedullà. Cerchiamo di rendere il romanzo meno complesso (è una parola) e soprattutto cerchiamo di renderlo più appetibile ai lettori che vorranno cimentarsi con il romanzo di D’Arrigo. Innanzi tutto il titolo.
Inizialmente doveva chiamarsi Hatshepsut (in ricordo dell’unica donna faraone che D’Arrigo incontrò durante un suo viaggio in Egitto), ma chi mai avrebbe comprato un libro che portava un titolo simile? La scelta successiva fu Cima delle nobildonne. Perché comunque Hatshepsut? Perché è il nome della placenta, quello che le fu dato da uno scienziato praghese, Planika, Amadeus Planika. E questo è il romanzo della placenta fu la definizione di D’Arrigo per Cima delle nobildonne.
Dunque se Horcynus Orca (il primo e insuperato capolavoro dello scrittore) poteva essere indicato come un romanzo sulla morte, Cima delle nobildonne in qualche modo può essere considerata una storia di vita, a cominciare dalla prima metà dello scritto che è occupata unicamente dall’intervento chirurgico a cui è sottoposto il giovane ermafrodito proprietà dell’emiro Saad Ibn as-Salah dell’Emirato di Kuneor sul Golfo del Petrolio, per trasformarlo in donna.
La seconda parte del romanzo è invece concentrata tutta sulla tragedia del ginecologo-placentologo Planicka che dall’idea di una placenta che può essere l’imprinting, cioè la struttura fondamentale, di quella che si può chiamare il destino della vita umana, passa alla consapevolezza (sulla base degli studi di tre ricercatori-scienziati americani) che invece nella placenta possono esistere dei seminomi, cioè semi della distruzione. E che dunque in essa è presente non soltanto la vita, ma anche il suo negativo, cioè la morte.
Tutto questo porterà al decesso di Planicka e alla sua idea di esistenza.
Ma Cima delle nobildonne non è soltanto questo, nel senso che non si esaurisce in questo complicatissimo sviluppo placentare, ma c’è un susseguirsi di personaggi che sembrano facilitare il significato della storia, ma in realtà lo impreziosiscono. A cominciare da una donna che delega al raccontatore del romanzo il proprio cane che però finirà investito da una macchina, ai due ex atleti americani che raccontano le loro vicende sportive.
Ma dopo tutto questo la conclusione ci porta a quale giudizio? Che la cima delle nobildonne sia in realtà la definizione della morte, così come aveva paventato il ginecologo Amadeus Planicka, o addirittura, considerato il valore che uno scrittore come D’arrigo pone all’acqua, un romanzo sul valore del mare?
Oppure, e questa è una considerazione che il critico Pedullà ha intuito ma lasciato in disparte, la placenta è il risultato di combinazioni che a volte vanno in porto e a volte, come nella coppia D’Arrigo-moglie, no perché non si è riusciti ad avere figli, che è il principio di ogni storia?



L’edizione da noi considerata è:

Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne
Mondadori



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