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Il Paradiso degli Orchi
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DE FALSU CREDITU

Giovanni Verza

I malafoglia

Fondazione Orenzo Falla, Pag.325 Euro 18,50
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Impreziosita da un saggio inedito di Jean De La Corbeilleirye, e dalle riproduzioni di quattro puntesecche di Federico Stacconanàna, torna a disposizione del Lettore più avvertito l'edizione critica di questo classico del verismo, curata da Giuseppe Antonio Borgese e notata dal Croce. Inutile riassumerne la trama: basta frequentare una qualsiasi antologia scolastica (un Sapònio, un Cazzaglia, un Petone) per rammentarsela. Vorremo invece qui discutere delle scelte lessico-strutturali dell'Autore, esemplate da una "romanza", ovvero da una pagina puramente lirica, del romanzo, e di come illustrino una schietta discendenza manzoniana. Già: di quel Manzoni che, inserendo nel suo Maggiore vere e proprie arie d'opera ("addio, monti", "scendeva sulla soglia"), inventava la multimedialità, confondendo letteratura, poesia, musica (còlta nella struttura e non nella mìmesi) e - a stare al Faeti - concertava co' suoi illustratori il corredo iconografico del Romanzo. (O non, piuttosto, anti-romanzo?)

E bene e per esempio: poco dopo le pagine incipienti, col concento de' personaggi statuìti e delle loro prime vicende (Lapa Coscia e l'incontro-scontro con Recchio Malafoglia; il sermone di don Pròpolo; la vendita a zi' Baldone Malafoglia del Cameleopardo, mallevadore zi' Bìbbo; la brevissima apparizione del malacàrne, cioè del bimbo Pallètico), perveniamo alla famosissima "pagina del mare". Ne stralcio un brano: "L'orizzonte taliava la tartana o sia schifo di zi' Baldone col suo occhio di capra, come 'o Scrafantànu del cemeterio i suoi morti ossificati dall'àlido solforoso della zolfatara Francangla. E pure il mare, com'uno scéccu d'una mano, faceva gran pochi rispetti, sebbene paranzasse. "Ah", fece Saro, e aggiarnò. Pallètico, d'un sorco, 'nzerrò allora la minazza. "Che fai, t'ingàtti?", lo sprecò Saro. Il bimbo si prese una caffàrra, tanto che aggettava l'uomo fatto, come volesse miniàrlo. Ma zi' Baldone, taliando la còzzera che si radunava all'oriente, li chetò: "Preghiamo, più tosto".

Inzinente, i due s'inginocchiaro, crosciandosi, benché lo schifo vastasasse a mano manca. Zi' Baldone si prese le sue ore, e fatturò: "Barone Signore, eccoci nelle mano Vostra. Davvero, siamo della liggi, e cume della liggi, cu' rispetto cacaiando, mittiamo a cacare nelle càvusi. Ma siamo tàuti parenti di quel Cardamone 'o scàuso, che salvòssi de'la càzzera ch'era una billizza di parte di Randazzo. E quindi noiàutre a Voi Re ci accomandiamo che la preghiera nosta fia compartata e Amènne".

"Amènne", ficcàrino i due suricìddi. Fu proprio in quella momenta, che la marea si calmò come fosse franca di porto, trovando calma nel tavoliere bleu co' li suoi seguaci correntizi. Rinfrancarono i servi della tartana, o sia Saro e il criaturo, e il pensiero di zi' Baldone si concretò: fece luogo di biasciare una requiameterna e un groliapatre d'in su la poppa de la nave antiqua, bensì sciogliendosi in un cantico che forse non morrà". (pp. 56-7)

Non v'ha chi non veda, in tale progressione, elementi manzoniani: abbiamo il Fermo e Lucia e Gli sposi promessi a garantire l'aderenza col vernacolo, che nel Verza sforza e supera la successiva evoluzione-involuzione allo "sciacquar li panni in Arno", e abbiamo la sovraposizione (altri direbbe "forclusione" o addirittura "aufhebung") della sintassi dialettale nella diegesi para-italiana - può cogliersi fra l'altro in alcuni anacoluti sul genere de "il coraggio, chi non ce l'ha, non se lo può dare". Verza accoglie le due principali correnti di vita giovanile e però anche tradizionali, statuìte, e le equilibra mantenendo però la loro inattualità, e realizzando una lingua jekyll-hyde, e perciò classica. Abbondavano difatti nella koiné vocaboli doppi: dal deinà ch'è meraviglioso e terribile, al sacer-sacrum de' Latini. Cos'avviene allora? Che Verza, sensibile, ne' suoi Malafoglia ha voluto perseguire la strada che il Manzoni suggerì, ma non ebbe il coraggio o la sorte di realizzare: non tanto e non solo l'ibrido fra l'italiano de' dotti e il dialetto delle moltitudini, quanto una lingua di mondo che rendesse ragione di entrambi, e che col suo conflitto illustrasse il conflitto tra le classi - e siamo al "marxismo senza Marx" (o "anteMarx"), non solo e non tanto in Verza, che del filosofo di Treviri ha cognizione diretta per le circostanze (s'era laureato in Germania, con una tesi sull'economia politica), e per i tempi (I malafoglia è del 1883), quanto proprio in don Lisànder, che fa polemizzare (in senso eracliteo) la lingua dei poveri, della realtà, col latinorum, e a questo livello scopre la lotta di classe.

Quanto tale continuo "duello linguistico" avvenga continuamente, basta leggere ogni pagina de I malafoglia per verificarlo. Ma in alcune più di altre - il delirio di Recchio, la notte di don Pròpolo dopo aver tradito il segreto della confessione, la scoperta del poter leggere del bimbo Pallètico, la morte della figlia dell'Emorroìssa - la bravura dell'Autore, iscrivendo il contrasto nel linguaggio, pare aver voluto richiamare ch'esso sia il luogo ove l'individuo e la comunità confliggendo s'equivalgano. Ove cioè la psicologia e le scienze sociali si confondono perché il loro oggetto, come quelle immagini ingannevoli (l'"anatra-coniglio", la "giovane-vecchia") che dànno illusione ottica, è inattingibile e finalmente indicibile - resta, come sua unica traccia e realtà, il conflitto appunto. Non a caso, dunque, Elio Filippo Accrocca volle dare al suo saggio su Verza il malinconico titolo "Siamo, non siamo".





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