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CLASSICI

Pier Paolo Di Mino

Il Caligola di Camus

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Caligola un giorno disse che i senatori erano tutti asini, e tempo qualche ora tutta Roma seppe che aveva nominato senatore un asino: Caligola era nato per creare leggende e diventare un mito, e Camus, con il suo occhio lungo di uomo abituato al deserto e alle riflessioni che sconfinano, dietro il suo mito scorse coscienziosamente quello del Dioniso nicciano. Lo scrittore svilupperà questa riflessione mitologica nel corso di un travagliato lavoro di riscrittura che, dal 1937 al 1958, lo porterà a redigere tre diverse versioni della sua opera teatrale. È un lavoro tormentato, gravato dai dubbi etici dell'autore, che coincide con le vicissitudine tragiche della seconda guerra mondiale. L'iniziale rappresentazione sacra del dio cretese che rivela agli uomini la forza sconcertante della vita indistruttibile, diventa man mano qualcosa di diverso. Questa vita pura, che si manifesta come atto per eccellenza e, quindi, poesia, diventa la metafora di una corrività novecentesca: un poeta al potere. Se un poeta è al potere non può fare altro che applicare le leggi implacabili della poesia, quali sono immaginate dalla fantasia del Novecento: assurde, o, se si vuole, logiche fino all'assurdo. Questa è già Hitler, e, dunque, Camus dovrà terminare un'ultima versione, che è una castigata reprimenda della poesia, con un noioso pamphlet contro il nazismo e un panegirico della virtuosa resistenza. Camus si è sentito costretto a questo, congetturando che il suo Caligola somigliasse troppo al dittatore tedesco. Sarebbe piuttosto il caso di pensare il contrario, o, ancora meglio, che quello che ci ha portato fino al nazismo e, dal nazismo, fino ai nostri giorni, è la stessa idea di vita e, quindi, di poesia, che si agita dietro le diverse redazioni del suo Caligola. La brevità dell'esistenza non ha concesso allo scrittore francese di redigere oggi una quarta e conclusiva versione in cui la ragione ridotta a ragioneria, e la poesia a pubblicità, consente dittature il cui assurdo ha le tinte angosciose di un pecoreccio da bar sport.

Il sogno della ragione produce mostri, ma il problema è che, a forza di ragionare troppo, si finisce per annoiarsi e addormentarsi: evadere nel sogno. Con il romanticismo, la poesia, o la vita pura, è sentita come pervertimento dell'ordine sociale, e quindi della ragione (prima di tutto commerciale): sregolatezza quintessenziale. Con certa consequenzialità, Dioniso sarà immaginato come latore di questa infrazione continuata delle leggi: un Dio del delirio. Una fantasia che un greco difficilmente avrebbe condiviso, perché se la vita pura e indistinta si presenta all'uomo come cosa terribile, questo terribile è pur sempre il fondamento della sua vita individuale. Platone poteva placidamente affermare che è dal timore panico con cui ci sottomette il Dio che nasce lo Stato. Allo stesso modo, avrebbe potuto affermare (se la cosa gli fosse convenuta) che la poesia produce realtà.

Questo terribile movimento verso l'ordine, in fondo, è ciò che si rivela nelle congetture realmente rivoluzionarie (sia o meno un poeta a capitanarle, come a Fiume). Un movimento che ci sembra precluso, oggi, per sempre.

Se Caligola è la poesia come delirio e la manifestazione incontrollata della vita nella sua essenza, in effetti, non ci resta altro che reprimere questo fardello infame. Reprimere questa forza, per quanto ci può costare in termini umani, è operazione fondamentale più semplice che guardarla in faccia, e riconoscerla.

Alla fine, se ci rimane qualcosa che brucia ancora dentro, non tenuto a bada dall'ascesi psicanalitica, dai riti dell'abulismo e dell'anoressia, dalla ricerca estasiata delle piccole gioie quotidiane, dalla lotta bastevole e educata per conquistare la propria fetta di terra al sole; se ci rimane un po' di poesia tenuta salva dalla creatività e dai suoi corsi per svilupparla (magari fino al gioioso momento dell'uscita del libro e la coronazione con coro che intona saranno famosi: Bolaño mostra di sapere tutto lì dove indovina la stretta correlazione che passa fra il numero delle scuole di scrittura creativa presenti sul territorio di una nazione e l'assenza di libertà costituzionali che vige in detta nazione); se ci rimane un po' di fiato vivo in corpo, avremo ancora la forza di osservare, con la vecchietta siracusana, che morto l'ultimo dittatore (ultimo in ordine di tempo); morto questo dittatore, sicuramente con un calzino in mano durante lo svolgimento di un'orgia al dopolavoro aziendale, il peggio dovrà ancora venire.

È bello oggi riprendere in mano il copione di Camus per nutrire questo sospetto. È una lettura che potremmo assumere come omeopatica. Consigliabile (prima di tutto per la sua bellezza implacabile) è soprattutto la versione del 1941, dove, insieme a Cherea, potremmo arrivare a pensare che siamo tutti Caligola. Come Caligola non stiamo riconoscendo una forza terribile ed essenziale che è nutrimento per la nostra vita. Come Cherea potremmo arrenderci all'evidenza che l'unico modo in cui facciamo salva la nostra anima è incaricando un tiranno affinché si assuma tutti i peccati del mondo.



La versione da noi considerata è:



Albert Camus

Caligola

Bompiani - 2000





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