RECENSIONI
Andrea Carraro
Il gioco della verità
Hacca edizioni, Pag. 216 Euro 14,00![immagine](uploads/tx_orchidata/recensioni_592_fotoprincipale.jpg)
La morte, la malinconia, il male di vivere: le frustrazioni, i fallimenti, l'angoscia. Il gioco della verità poggia su sedici racconti dello scrittore Andrea Carraro (Roma, 1959), famoso per Il branco, caratterizzati da una vena depressiva e cupa. Nera, che più nera non si può. In un certo senso, tutto a un tratto diventa prevedibile come un romanzo di genere; se anche per accidente s'è aperto uno squarcio di luce nelle storie, ecco che subentra, non senza grottesco, una disgrazia, una ferita terrificante, un morbo.
È talmente prevedibile, l'epifania del male, che a un tratto fa ridere: è come nei filmati di Aldo Giovanni e Giacomo della Tv svizzera. E questo non va. Allora occorre prendere atto di quanto insegna il letterato Andrea Di Consoli, direttore editoriale di Hacca, nella bandella dell'opera: altrimenti si sbarella, si va a tingere di nero (paint it black) un libro che forse aveva un intento diverso dalla depressione (o dall'ilarità isterica) dei suoi cinquemila lettori plausibili: Questi racconti ci dicono qualcosa di definitivo sul "male oscuro" della piccola-borghesia italiana, incarcerata in reticenze e rabbie covate troppo a lungo, e in tristi ritualità di un benessere di facciata. Ecco, dopo le prove magistrali de 'Il branco', 'La lucertola e Il sorcio', a cosa si sono ridotti i borgatari di Pasolini e i borghesi di Moravia. Eccoli, aggressivi e taciturni, aggirarsi in una enorme zona grigia di malessere, dove il borghese quartiere Trieste equivale al litorale romano "senza mare"; eccoli, infelici e senza sogni, sopravvivere "a reddito fisso", trascinandosi da un silenzio all'altro, sfuggendo a ogni vera sociologia» (fonte: bandella).
D'accordo. Tecnicamente Carraro tiene; tengono i dialoghi, serrati e innervati da un'umanità credibile (meno quando sfociano nel dialetto, nel popolaresco; qualcosa s'inceppa, s'intoppa, rallenta), tengono le tramette tragiche dei suoi personaggi, tiene la scrittura: una scrittura che incolla alla pagina. È nei significati e nel senso che si vacilla. Qualche esempio. La partita: minimalismo carveriano, interno giorno piccolo borghese, un torneo europeo alla Tv; giocano gli azzurri. Un amico della compagna del narratore, Lucio, sta diventando cieco: il narratore si finge cieco per capire, o per recuperare l'attenzione di lei. Punto. Crisi d'una coppia nello psicodramma borghese Dopocena, tra scandalosi discorsi sessuali e incomprensioni irrisolvibili (e malaticce descrizioni di copule d'antan). Stupro e sessualità malata (in casa) in Margherita, nono pezzo; suicidio d'un vecchio innamorato nel giorno di San Valentino ne Il biglietto; infine, noie vaticane ne Il parroco e il monsignore, cronistoria d'un progettato matrimonio con rito misto (per un ateo) che naturalmente finirà male. Passiamo a L'intervista: un vecchio amico, sempre Lucio, ex hashishomane, nevrastenico, si ritrova protagonista di un pezzo su una rivista; la sua psicosi e il suo male di vivere faranno discutere la carta stampata. Narratore è il cronista. Il muro di Guido: esercito, giorni del servizio militare coatto. Spinelli, letture di Sartre a inguaiare un giovane proletario comasco; incontra il narratore, imbastiscono discorsi tra letteratura (poca), romanità (minima) e cose della vita (soverchianti), e ualà che finisce morto per overdose nelle battute finali. Epifania della morte nelle piccole cose protagonista del Berretto; senso di colpa per una morte in La replica; la morte letta da un bambino ne La nonna morta. Infine, un cadavere in mare nel sobrio Un sabato al mare con papà.
Una catastrofe psicocosmica, direbbe Sgalambro. Ci si domanda, a questo punto, che senso abbia L'inaugurazione, l'ultimo racconto: storia della formazione giornalistica di un volenteroso, giovane alter ego dell'autore, della sua scoperta della grettezza e della piccolezza di certo ambiente giornalistico, della tristezza sordida della frustrazione. Stavolta non crepa nessuno: niente suicidi, niente omicidi, niente handicap mostruosi, niente di sudicio. Sudicia è soltanto la vita dell'uomo di cultura, a quanto pare, proprio come tutte le altre. Posso dire che non sono d'accordo? Ecco, l'ho detto. Questo testo è di un buio intossicante e sconfortante, è la radiografia di una visione lugubre dell'esistenza e dei contrasti e delle contraddizioni della vita: argomentazioni poco convincenti (natura umana; inevitabilità), stesure meccaniche e a un passo dall'artificiosità, scrittura intelligente vittima del male.
Consigliato a quanti credono che la morte, la malattia, i tracolli e le violenze domestiche non esistono. Sarà un bagno di umiltà. Tutti gli altri possono tranquillamente tenersi al largo (ma ocio ai cadaveri, in mare), sfogliando piuttosto l'Apocalisse. Almeno è massimalista, e promette rigenerazione.
di Gianfranco Franchi
È talmente prevedibile, l'epifania del male, che a un tratto fa ridere: è come nei filmati di Aldo Giovanni e Giacomo della Tv svizzera. E questo non va. Allora occorre prendere atto di quanto insegna il letterato Andrea Di Consoli, direttore editoriale di Hacca, nella bandella dell'opera: altrimenti si sbarella, si va a tingere di nero (paint it black) un libro che forse aveva un intento diverso dalla depressione (o dall'ilarità isterica) dei suoi cinquemila lettori plausibili: Questi racconti ci dicono qualcosa di definitivo sul "male oscuro" della piccola-borghesia italiana, incarcerata in reticenze e rabbie covate troppo a lungo, e in tristi ritualità di un benessere di facciata. Ecco, dopo le prove magistrali de 'Il branco', 'La lucertola e Il sorcio', a cosa si sono ridotti i borgatari di Pasolini e i borghesi di Moravia. Eccoli, aggressivi e taciturni, aggirarsi in una enorme zona grigia di malessere, dove il borghese quartiere Trieste equivale al litorale romano "senza mare"; eccoli, infelici e senza sogni, sopravvivere "a reddito fisso", trascinandosi da un silenzio all'altro, sfuggendo a ogni vera sociologia» (fonte: bandella).
D'accordo. Tecnicamente Carraro tiene; tengono i dialoghi, serrati e innervati da un'umanità credibile (meno quando sfociano nel dialetto, nel popolaresco; qualcosa s'inceppa, s'intoppa, rallenta), tengono le tramette tragiche dei suoi personaggi, tiene la scrittura: una scrittura che incolla alla pagina. È nei significati e nel senso che si vacilla. Qualche esempio. La partita: minimalismo carveriano, interno giorno piccolo borghese, un torneo europeo alla Tv; giocano gli azzurri. Un amico della compagna del narratore, Lucio, sta diventando cieco: il narratore si finge cieco per capire, o per recuperare l'attenzione di lei. Punto. Crisi d'una coppia nello psicodramma borghese Dopocena, tra scandalosi discorsi sessuali e incomprensioni irrisolvibili (e malaticce descrizioni di copule d'antan). Stupro e sessualità malata (in casa) in Margherita, nono pezzo; suicidio d'un vecchio innamorato nel giorno di San Valentino ne Il biglietto; infine, noie vaticane ne Il parroco e il monsignore, cronistoria d'un progettato matrimonio con rito misto (per un ateo) che naturalmente finirà male. Passiamo a L'intervista: un vecchio amico, sempre Lucio, ex hashishomane, nevrastenico, si ritrova protagonista di un pezzo su una rivista; la sua psicosi e il suo male di vivere faranno discutere la carta stampata. Narratore è il cronista. Il muro di Guido: esercito, giorni del servizio militare coatto. Spinelli, letture di Sartre a inguaiare un giovane proletario comasco; incontra il narratore, imbastiscono discorsi tra letteratura (poca), romanità (minima) e cose della vita (soverchianti), e ualà che finisce morto per overdose nelle battute finali. Epifania della morte nelle piccole cose protagonista del Berretto; senso di colpa per una morte in La replica; la morte letta da un bambino ne La nonna morta. Infine, un cadavere in mare nel sobrio Un sabato al mare con papà.
Una catastrofe psicocosmica, direbbe Sgalambro. Ci si domanda, a questo punto, che senso abbia L'inaugurazione, l'ultimo racconto: storia della formazione giornalistica di un volenteroso, giovane alter ego dell'autore, della sua scoperta della grettezza e della piccolezza di certo ambiente giornalistico, della tristezza sordida della frustrazione. Stavolta non crepa nessuno: niente suicidi, niente omicidi, niente handicap mostruosi, niente di sudicio. Sudicia è soltanto la vita dell'uomo di cultura, a quanto pare, proprio come tutte le altre. Posso dire che non sono d'accordo? Ecco, l'ho detto. Questo testo è di un buio intossicante e sconfortante, è la radiografia di una visione lugubre dell'esistenza e dei contrasti e delle contraddizioni della vita: argomentazioni poco convincenti (natura umana; inevitabilità), stesure meccaniche e a un passo dall'artificiosità, scrittura intelligente vittima del male.
Consigliato a quanti credono che la morte, la malattia, i tracolli e le violenze domestiche non esistono. Sarà un bagno di umiltà. Tutti gli altri possono tranquillamente tenersi al largo (ma ocio ai cadaveri, in mare), sfogliando piuttosto l'Apocalisse. Almeno è massimalista, e promette rigenerazione.
di Gianfranco Franchi
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