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RECENSIONI

Lion Feuchtwanger

L'ebreo di Roma

Castelvecchi, traduzione di Ervino Pocar, Pag. 380 Euro19,50
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Ecco un vero buono e sostanzioso romanzo storico. Scritto negli anni trenta e finito a suo tempo nei famigerati roghi di libri della Germania nazista, già pubblicato in Italia, è ora riproposto da Castelvecchi. E ne vale la pena.
   Chi mi conosce sa che non ho simpatia per i romanzi storici, a cui preferisco l’indagine, la ricostruzione discussa e condivisa in corso d’opera, l’affannosa ricerca dei frammenti da ricongiungere con il rimpianto di non poter riempire tutti gli spazi. Del romanzo storico invece mi indispongono la disonestà dei rattoppi, le tessere falsamente combacianti di un mosaico forzato, la sostituzione delle illegittime fantasie dell’autore a quelle che potrei legittimamente fare io sulla base degli stessi dati. Fra poco spiegherò perché invece questo romanzo, che romanzo è al cento per cento, ha meritato il mio entusiasmo.
   Voglio accennare prima al riferimento storico, precisando che questo è il romanzo di mezzo della cosiddetta Trilogia di Giuseppe. Parliamo di Flavio Giuseppe, già di per sé figura straordinaria, personaggio che ha dell’incredibile. Nato nel primo secolo dopo Cristo, egli si trovò a vivere nel momento di massima espansione dell’Impero Romano e nello stesso tempo in un mondo ellenizzato e sostanzialmente cosmopolita. Forse mai, nel mondo antico, si era assistito a una simile forma di globalizzazione. Culture molteplici e diverse coesistevano a stretto contatto condividendo o confrontando lingue, religioni e conoscenze. Giuseppe era ebreo, appartenente alla setta dei farisei, abituato all’osservanza della Legge e dei riti. Nello stesso tempo egli era uno studioso, curioso del mondo e affascinato dalla cultura dei greci e dall’efficienza organizzativa dei romani. Ebreo e cosmopolita. Questa dicotomia è la cifra di tutta la sua vita. Diplomatico, soldato, scrittore, storico, egli si trovò coinvolto con identico impegno in campi avversi, prima simpatizzante dei romani, poi loro acerrimo nemico in battaglia, poi vinto e prigioniero e infine (oggi si chiamerebbe “sindrome di Stoccolma”) lui stesso cittadino romano sotto la protezione dei diversi imperatori della dinastia dei Flavi, da Vespasiano a Domiziano.
   Tornando al romanzo, si può notare come l’Autore scelga in assoluta libertà gli aspetti in cui essere preciso fino alla pignoleria nell’aderenza al dato storico e altri aspetti (per esempio quelli relativi alla vita familiare) in cui permettersi il lusso di inventare. Lo fa da scrittore di grande tempra, che non ha bisogno di chiedere permessi, consapevole che sarà il lettore stesso, affascinato dal suo racconto, a documentarsi e discernere. Ora vorrei spiegare con la massima onestà e chiarezza la ragione per cui io glielo lascio fare. Voglio dire che se di solito la mescolanza di verità storica e finzione mi disturba, questa volta no. 
   Il fatto è che in questo romanzo si assiste a una vera, completa, perfetta trasformazione del personaggio storico in personaggio letterario. (Un’operazione che, lo dico solo per fare un esempio, riusciva benissimo a Shakespeare). Flavio Giuseppe acquista uno spessore drammatico che trova in sé la propria giustificazione e il proprio senso, affrancandosi da ogni altra necessità.
   Il periodo preso in considerazione è quello apparentemente tranquillo in cui Giuseppe ha ormai consolidato la propria posizione, vive a Roma dove è apprezzato come scrittore e gode della protezione dei Flavi. Non cessa però il suo rovello interiore, la contraddizione che egli porta con sé come una scelta dolorosa continuamente rinnovata. Esemplare è il momento in cui l’imperatore Tito gli comunica l’intenzione di fargli erigere un busto nel Tempio della Pace.
    Un busto nella sala d’onore del Tempio della Pace! Non mancavano statue a Roma, ma un busto in quella sala era la più alta aspirazione di ogni scrittore. (…) Ora sentiva nella mente come uno squillare di corni e tube (...) e la gioia lo avvolse come una nebbia.
   Ma tosto, prima ancora di aver espresso il suo grazie all’imperatore e amico, quell’ondata di felicità fu turbata da una preoccupazione. “Non farti immagine alcuna”. Lui ha ammesso, anzi, è stato lui la causa per la quale un giorno il castello di re Agrippa a Tiberiade fu assalito e incenerito per via delle statue. E se ora ammette che nel tempio pagano si eriga la sua propria statua, commette un peccato mortale.
   L’onnipresente dicotomia viene rappresentata molto efficacemente nel rapporto di Giuseppe con i figli, l’uno nato da una donna di cultura ellenistica e perciò pagana, l’altro nato da una donna ebrea. Il sogno di Giuseppe, di avere un figlio ebreo ufficialmente riconosciuto, si scontra in entrambi i casi con difficoltà di ogni tipo, giuridiche e relazionali, gravide di un tale carico di impegno e sofferenza da far sì che questo problema specifico assuma la funzione di metafora di tutta la sua condizione esistenziale. Questa, nel romanzo, è una delle parti in cui l’Autore si prende la massima libertà inventiva, ma nel suo felice crogiuolo letterario verità e finzione si impastano in una materia che ha lo splendore dell’autenticità.

di Giovanna Repetto


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