RECENSIONI
Emanuele Bevilacqua
La biblioteca di Fort Knox
Cooper, Pag.73 Euro 9,00
My gosh! Waw! Jeez! Finalmente il libro perfetto per il recensore. Nel senso, che dà poca fatica: è impossibile da recensire. Mi spiego (ma non mi "sspezzo"): il testo è breve, denso, e riassumerlo significherebbe renderlo quasi per intero - ovvero ammazzarlo, siccome il mio Paziente Lettore si direbbe unquanco: "Tanto vale leggermi la (questa) rubrica, sta tutto lì!" Peggior servizio all'Autore non si potrebbe fare, e la recensione, com'è ovvio, è anche in larga parte scritto servile.
Par contre, commentare delle pagine come queste, sigificherebbe spiegare la barzelletta: il paradosso, la satira, il guizzo del witz non si dissezionano, se non nei po(n)derosi tomi degli specialisti - mentre la recensione è (pure) foglio d'album, pagina di calepino, appunto scritto sull'acqua, foglia su cui son vergate le parole della Sibilla che van disperse al vento. E però il buon Génette, nel suo Palinsesti (Einaudi, Torino: e chi se no?) negava la possibilità d'una parodia "anonima", ossia senza un preciso referente: qui invece consiste la scrittura in una libera contraffazione d'un "cosa" e non d'un "chi". Il professor Hugo Viro, inesistente cavaliere industriatosi a comporre un'ectoplasma di conferenza, non è la contraffazione di "uno" in particolare, ma una "voce d'enciclopedia", ovvero "il conferenziere". Che relaziona sull'avvenire dei nostri libri: non (ri)legato più all'alchimìa della pagina, sebbene alla sua fisica (e, nell'ultimo capitoletto, alla sua bromatologìa addirittura). Con un ritorno a quell'"uso parziale alternativo" che los revolucionarios nostrali volevano delle strutture capitalistiche "nella prospettiva marxiana".
E va bene: non potendo parlare direttamente del lavoro di Bevilacqua, che va letto senz'altro, m'incuriosirò a spericolarmi sino a dire che v'ho trovato segni non strumentali della sommessa ironia che si dà negli scritti sovrasostanziali di Beniamino Placido, tracce dell'Eco diaristico e pasticheur, e soprattutto un'aria à la Tommaso Labranca: di spregiudicata ipermodernità nel condurre i paralogismi e nella scelta dei bersagli, di sofisticata cialtroneria negli esempi e nelle strizzate d'occhio - bastino campioni quali "persone in grado di gustare un buon varietà televisivo senza addormentarsi" (p. 38) oppure la ricordanza (p. 41) dell'omìno Bialetti. Senza contare una disinvolta civetteria nel riporto di titoli di testi fondamentali (ma, si teme, d'invenzione) in lingue non esattamente accessibili, quali l'olandese. (pp. 48-9) Unico problema di questa presunta influenza, è che Labranca ha esordito a fine '94, mentre il libriccino di Bevilacqua escì per Theoria nel gennaio di quell'anno - così dovutamente si ristampa. Da che il problema: vi sono influenze preventive? O non piuttosto, tra i garzon bennàti all'arte, una qual somiglianza, che è quella che fa le generazioni? Mistero. Com'è misterioso il fatto che Bevilacqua, il quale l'inglese lo sa molto meglio di me (e forse anche di Te, mio Benevolo), sia caduto nell'imperizia di scrivere "sir Attenborough" (p. 35) riferendosi al regista al servizio palese di Sua Maestà Britannica.
Però: queste "istruzioni per l'uso (parziale alternativo) del libro" hanno anche una loro ombra - segnalano una società che, pur ingolfata di volumi, non sa più che farsene. Un consesso civile dove l'abbondanza materiale e l'accesso alla cultura non hanno consentito agli uomini di progredire, di diventare adulti sapiens, ma solo, purtroppo, di diventare (nel fisico e nell'intelletto) rimbambiti obesi. Dove la letteratura come elaborazione del vissuto e dunque memoria storica è inutile - il Truffaut di Fahrenheit - e l'Autore lo rimarca: "l'oggi è il tempo che tanto amiamo ed è l'unico che conta. Il resto è passato, per fortuna". (p. 52) Dove, infine, il libro non è più lo scudo di Perseo (come voleva Calvino e come Bevilacqua suggerisce alle pp. 46-7), che fa vincere sulla Medusa dei media, il cui sguardo pietrifica. Ma è, revisiting McLuhan, null'altro che "l'estensione del nostro umano sedere". (p. 70) Triste società dunque la nostra, che va dal cult-book al culo-book in una sola facile lezione.
di Marco Lanzòl
Par contre, commentare delle pagine come queste, sigificherebbe spiegare la barzelletta: il paradosso, la satira, il guizzo del witz non si dissezionano, se non nei po(n)derosi tomi degli specialisti - mentre la recensione è (pure) foglio d'album, pagina di calepino, appunto scritto sull'acqua, foglia su cui son vergate le parole della Sibilla che van disperse al vento. E però il buon Génette, nel suo Palinsesti (Einaudi, Torino: e chi se no?) negava la possibilità d'una parodia "anonima", ossia senza un preciso referente: qui invece consiste la scrittura in una libera contraffazione d'un "cosa" e non d'un "chi". Il professor Hugo Viro, inesistente cavaliere industriatosi a comporre un'ectoplasma di conferenza, non è la contraffazione di "uno" in particolare, ma una "voce d'enciclopedia", ovvero "il conferenziere". Che relaziona sull'avvenire dei nostri libri: non (ri)legato più all'alchimìa della pagina, sebbene alla sua fisica (e, nell'ultimo capitoletto, alla sua bromatologìa addirittura). Con un ritorno a quell'"uso parziale alternativo" che los revolucionarios nostrali volevano delle strutture capitalistiche "nella prospettiva marxiana".
E va bene: non potendo parlare direttamente del lavoro di Bevilacqua, che va letto senz'altro, m'incuriosirò a spericolarmi sino a dire che v'ho trovato segni non strumentali della sommessa ironia che si dà negli scritti sovrasostanziali di Beniamino Placido, tracce dell'Eco diaristico e pasticheur, e soprattutto un'aria à la Tommaso Labranca: di spregiudicata ipermodernità nel condurre i paralogismi e nella scelta dei bersagli, di sofisticata cialtroneria negli esempi e nelle strizzate d'occhio - bastino campioni quali "persone in grado di gustare un buon varietà televisivo senza addormentarsi" (p. 38) oppure la ricordanza (p. 41) dell'omìno Bialetti. Senza contare una disinvolta civetteria nel riporto di titoli di testi fondamentali (ma, si teme, d'invenzione) in lingue non esattamente accessibili, quali l'olandese. (pp. 48-9) Unico problema di questa presunta influenza, è che Labranca ha esordito a fine '94, mentre il libriccino di Bevilacqua escì per Theoria nel gennaio di quell'anno - così dovutamente si ristampa. Da che il problema: vi sono influenze preventive? O non piuttosto, tra i garzon bennàti all'arte, una qual somiglianza, che è quella che fa le generazioni? Mistero. Com'è misterioso il fatto che Bevilacqua, il quale l'inglese lo sa molto meglio di me (e forse anche di Te, mio Benevolo), sia caduto nell'imperizia di scrivere "sir Attenborough" (p. 35) riferendosi al regista al servizio palese di Sua Maestà Britannica.
Però: queste "istruzioni per l'uso (parziale alternativo) del libro" hanno anche una loro ombra - segnalano una società che, pur ingolfata di volumi, non sa più che farsene. Un consesso civile dove l'abbondanza materiale e l'accesso alla cultura non hanno consentito agli uomini di progredire, di diventare adulti sapiens, ma solo, purtroppo, di diventare (nel fisico e nell'intelletto) rimbambiti obesi. Dove la letteratura come elaborazione del vissuto e dunque memoria storica è inutile - il Truffaut di Fahrenheit - e l'Autore lo rimarca: "l'oggi è il tempo che tanto amiamo ed è l'unico che conta. Il resto è passato, per fortuna". (p. 52) Dove, infine, il libro non è più lo scudo di Perseo (come voleva Calvino e come Bevilacqua suggerisce alle pp. 46-7), che fa vincere sulla Medusa dei media, il cui sguardo pietrifica. Ma è, revisiting McLuhan, null'altro che "l'estensione del nostro umano sedere". (p. 70) Triste società dunque la nostra, che va dal cult-book al culo-book in una sola facile lezione.
di Marco Lanzòl
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