DE FALSU CREDITU
Vitta Gestini
La broggia sulla dìola
Nomadelphi - Gallimére - Coquelicot Associati, Pag.112 Euro 10,50
Per chi possieda un casale lorenese restaurato, un riattato rustico (De Filippo) in campagna, o una dacia (Maraini, ça va sans dire) tra le betulle, o fors'anche una casa urbana, ma con più di dieci (quattordici, va') lustri di vita, mettere una broggia sulla diola è un'operazione quotidiana, banale, forse la più banale delle giornaliere operazioni di accudimento della casa. E lo era anche per il nonno, lo zio, il padre, insomma per gli adulti màsculi che Vitta (sic!) Gestini aveva intorno quand'era bambina, negli anni '60 dell'ormai secolo scorso (il ventesimo, naturalmente), e viveva a Larissa Ammàre - un paesino del litorale calabro - una vita di noia e di esclusione. Un'esclusione totale, tanto che la simboleggia proprio l'allontanamento della protagonista dalla più prosaica e giornaliera delle occupazioni: Potevo guardare, ma non da troppo vicino. Mi veniva detto che era per il mio bene. E lo era: se la broggia di rame colma d'acqua di pozzo che mio nonno - con un solo strappo - metteva sulla vecchia diola in muratura della cantina gli fosse scappata di mano, certo venendomi addosso mi avrebbe schiacciato. Ma non sopportavo uguale di essere ridotto a semplice spettatore: anche perché presentivo - con quella sorta di coscienza inconscia e preveggente che talvolta hanno i bambini che gli adulti con timoroso orgoglio identificano come "sensibili" - che io mai sarei stato capace di piazzare così, d'un sol colpo, con una singola mossa forte ed elegante, la broggia sulla dìola. (p. 17)
Mi scuso per la lunga citazione, ma davvero questo è il punto focale del libro. E non è un errore che si parli nel testo di un bambino al maschile (Tony Duvert). Vitta infatti è nata Vito, e lo è stata fino ai ventidue anni, quando grazie ad una eredità ha potuto definitivamente cambiare sesso. Una scelta che le è valsa l'ostracismo della famiglia - eccezion fatta per la zia Goga, che già era stata il suo nume protettore sin dall'infanzia, e che aveva lottato per risparmiarle (-gli, a quel tempo: la doppia pronominazione dell'Autrice scandisce la fasi del suo testo-testimonianza e dunque dei suoi testis, cfr. il richiamo biblico a p. 22, sul giuramento di quegli Antichi) il sarcasmo e l'umiliazione derivate dai suoi atteggiamenti nonconformisti: unica tra i giovani del paese, Vitta (all'epoca ancora Vito) porta i capelli lunghi (viene rapata a forza diverse volte), va a leggere nella vetusta bibliotechina della scuola i francesi e i russi (e i canti illirici tradotti dal Tommaseo, e il diario intimo di quel Grande), cerca di apprendere a suonare il flicorno baritono per entrare nella banda d'una cittadina vicina (che forse è Paola), ascolta i concerti alla radio e poi alla tv. A questo proposito, è memorabile la lunga descrizione (pp. 45-61) di lei-lui che, efebo quindicenne, ascolta un concerto diretto da Sergiu Celibidache - le Pause del silenzio di Gianfrancesco Malipiero - mentre alla musica s'incrociano (cfr. il pezzo per dodici radio di Cage, a p. 73) i diversi rumori della casa, della stalla, e del vicinato: l'asino che monta l'asina, il padre che monta la madre e di conseguenza crocchia il letto, la sorella più grande che ascolta Bobby Solo alla radio, i due fratelli più piccoli che fanno a gara di scuregge con i ragazzini del vicinato, le mille altre piccole voci di liti e di ipocrisia del paesucolo - autentica epopea del vicinato, come voleva Giusepp'Antonio Borgese delibato dallo scrittore Sciascia.
Ma nonostante racconti di un'esistenza separata, d'un vero e proprio apartheid che dura tuttora, la gran forza di questo libro, oltre alla scrittura sapiente, davvero controllatissima eppure saporosa, è quella di illustrare con leggerezza una vita (una Vitta: il gioco di parole non è mio, ma dell'Autrice, ed è in escatocollo) che non ha d'anormale che il cambiamento di sesso. Il quale però rende potente, e carichi di destino, anche i gesti più minuti, come quel sistemare la broggia che quasi dà il via al libro. E, viceversa, governa con le sue implicazioni controerotiche un'esistenza intera, naturalmente compreso il primo, castissimo - non v'è nel libro un richiamo esplicito al sesso, anche quando lo si nomina non lo si illustra - amore di Vito-Vitta per il bellissimo cugino di signuriccu (il figlio del sindaco), venuto dal Nord (non si specifica da dove, per lasciare un alone mitico a questa residenza) a mostrare il miracolo della sua biondità, che rendeva biondo (cioè etereo, sterilizzato direi) ogni suo movimento e ogni sua presenza: bionda era la sua chioma, e bionde le sue mosse slanciate, biondo il suo tuffarsi nel mare bluastro, bionda come il vino la sua piscia sui muri, bionda la sua voce che, miracolo, componeva parole nell'italiano più biondo che mai si fosse visto (p. 31).
E sì: questo è il libro d'esordio d'una sessantenne. Ma quanto giovane, cioè vigoroso, sapido, divertente, spigliato e vitale. Quanto ha, l'Autrice, da insegnare alla smorta letteratura dei "giovani scrittori" e delle melisse pì, tutti impegnati a rimirarsi l'ombelico, o a squartarlo, o a infilarci una racchetta da tennis! Meditate, o giovani. Meditate!
Mi scuso per la lunga citazione, ma davvero questo è il punto focale del libro. E non è un errore che si parli nel testo di un bambino al maschile (Tony Duvert). Vitta infatti è nata Vito, e lo è stata fino ai ventidue anni, quando grazie ad una eredità ha potuto definitivamente cambiare sesso. Una scelta che le è valsa l'ostracismo della famiglia - eccezion fatta per la zia Goga, che già era stata il suo nume protettore sin dall'infanzia, e che aveva lottato per risparmiarle (-gli, a quel tempo: la doppia pronominazione dell'Autrice scandisce la fasi del suo testo-testimonianza e dunque dei suoi testis, cfr. il richiamo biblico a p. 22, sul giuramento di quegli Antichi) il sarcasmo e l'umiliazione derivate dai suoi atteggiamenti nonconformisti: unica tra i giovani del paese, Vitta (all'epoca ancora Vito) porta i capelli lunghi (viene rapata a forza diverse volte), va a leggere nella vetusta bibliotechina della scuola i francesi e i russi (e i canti illirici tradotti dal Tommaseo, e il diario intimo di quel Grande), cerca di apprendere a suonare il flicorno baritono per entrare nella banda d'una cittadina vicina (che forse è Paola), ascolta i concerti alla radio e poi alla tv. A questo proposito, è memorabile la lunga descrizione (pp. 45-61) di lei-lui che, efebo quindicenne, ascolta un concerto diretto da Sergiu Celibidache - le Pause del silenzio di Gianfrancesco Malipiero - mentre alla musica s'incrociano (cfr. il pezzo per dodici radio di Cage, a p. 73) i diversi rumori della casa, della stalla, e del vicinato: l'asino che monta l'asina, il padre che monta la madre e di conseguenza crocchia il letto, la sorella più grande che ascolta Bobby Solo alla radio, i due fratelli più piccoli che fanno a gara di scuregge con i ragazzini del vicinato, le mille altre piccole voci di liti e di ipocrisia del paesucolo - autentica epopea del vicinato, come voleva Giusepp'Antonio Borgese delibato dallo scrittore Sciascia.
Ma nonostante racconti di un'esistenza separata, d'un vero e proprio apartheid che dura tuttora, la gran forza di questo libro, oltre alla scrittura sapiente, davvero controllatissima eppure saporosa, è quella di illustrare con leggerezza una vita (una Vitta: il gioco di parole non è mio, ma dell'Autrice, ed è in escatocollo) che non ha d'anormale che il cambiamento di sesso. Il quale però rende potente, e carichi di destino, anche i gesti più minuti, come quel sistemare la broggia che quasi dà il via al libro. E, viceversa, governa con le sue implicazioni controerotiche un'esistenza intera, naturalmente compreso il primo, castissimo - non v'è nel libro un richiamo esplicito al sesso, anche quando lo si nomina non lo si illustra - amore di Vito-Vitta per il bellissimo cugino di signuriccu (il figlio del sindaco), venuto dal Nord (non si specifica da dove, per lasciare un alone mitico a questa residenza) a mostrare il miracolo della sua biondità, che rendeva biondo (cioè etereo, sterilizzato direi) ogni suo movimento e ogni sua presenza: bionda era la sua chioma, e bionde le sue mosse slanciate, biondo il suo tuffarsi nel mare bluastro, bionda come il vino la sua piscia sui muri, bionda la sua voce che, miracolo, componeva parole nell'italiano più biondo che mai si fosse visto (p. 31).
E sì: questo è il libro d'esordio d'una sessantenne. Ma quanto giovane, cioè vigoroso, sapido, divertente, spigliato e vitale. Quanto ha, l'Autrice, da insegnare alla smorta letteratura dei "giovani scrittori" e delle melisse pì, tutti impegnati a rimirarsi l'ombelico, o a squartarlo, o a infilarci una racchetta da tennis! Meditate, o giovani. Meditate!
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