RECENSIONI
Theodore F. Powys
La gamba sinistra.
Adelphi, Traduzione di Adriana Motti, Pag. 117 Euro 12.00
E ancora oggi nella terribile concretezza di queste storie riconosciamo uno dei rari scrittori metafisici del Novecento.
Così dicono le note di presentazione del libro in questione. Libro che ha attirato la mia attenzione, disconoscendo totalmente l’autore, (embè, mica uno, soprattutto nella letteratura mondiale, può conoscere l’intero consesso) per un titolo che ha titillato le mie papille gustative.
Dunque, uno dei rari scrittori metafisici del Novecento? Non lo so (permettetemi pure di avere una punta di critica sulla metafisica in genere), quello però che mi preme sottolineare è l’assoluta capacità di Powys di descrivere la povertà dell’esistenza umana.
Siamo in un villaggio inglese fuori dal tempo. E ci sono una decina, o poco più, di abitanti, che si dimenano fra varie difficoltà, sia economiche, che umane.
E’ soprattutto l’aspetto umano che affascina ed intriga: come non ricordare lo stupro di Mew il Fattore o la morte improvvisa della signora Patch aggredita da un toro per la riproduzione, o il ritrovamento della giarrettiera della signora Summerbee. Tutti piccoli dettagli che però nel loro insieme formano una terribile e gigantesca sintesi di maledizione e di morte.
Dicesi che Powys sia stato anche cantore del Male, cioè un talento tutto particolare nel riuscire a mostrare, con una precisione infernale, dove questo si annidi e soprattutto per quali vie insospettabili spesso agisca.
Forse lo è stato (sicuramente nei suoi romanzi più corposi): in questo vediamo un atteggiamento derisorio nei confronti non soltanto delle persone più malvagie (torna di nuovo Mew il Fattore), ma nei confronti dell’intero genere umano.
Che questo poi sia Il Male o il principio della metafisica poco ci interessa. Quel che a noi piace è la condanna del malessere dentro e fuori di noi.
E questo basta.
di Alfredo Ronci
Così dicono le note di presentazione del libro in questione. Libro che ha attirato la mia attenzione, disconoscendo totalmente l’autore, (embè, mica uno, soprattutto nella letteratura mondiale, può conoscere l’intero consesso) per un titolo che ha titillato le mie papille gustative.
Dunque, uno dei rari scrittori metafisici del Novecento? Non lo so (permettetemi pure di avere una punta di critica sulla metafisica in genere), quello però che mi preme sottolineare è l’assoluta capacità di Powys di descrivere la povertà dell’esistenza umana.
Siamo in un villaggio inglese fuori dal tempo. E ci sono una decina, o poco più, di abitanti, che si dimenano fra varie difficoltà, sia economiche, che umane.
E’ soprattutto l’aspetto umano che affascina ed intriga: come non ricordare lo stupro di Mew il Fattore o la morte improvvisa della signora Patch aggredita da un toro per la riproduzione, o il ritrovamento della giarrettiera della signora Summerbee. Tutti piccoli dettagli che però nel loro insieme formano una terribile e gigantesca sintesi di maledizione e di morte.
Dicesi che Powys sia stato anche cantore del Male, cioè un talento tutto particolare nel riuscire a mostrare, con una precisione infernale, dove questo si annidi e soprattutto per quali vie insospettabili spesso agisca.
Forse lo è stato (sicuramente nei suoi romanzi più corposi): in questo vediamo un atteggiamento derisorio nei confronti non soltanto delle persone più malvagie (torna di nuovo Mew il Fattore), ma nei confronti dell’intero genere umano.
Che questo poi sia Il Male o il principio della metafisica poco ci interessa. Quel che a noi piace è la condanna del malessere dentro e fuori di noi.
E questo basta.
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