CLASSICI
Alfredo Ronci
La poca fortuna di un piccolo autore: “Una vita” di Italo Svevo.

Certo gli inizi di Svevo non furono positivi. Tra il 1886 e il 1895 vedrà prima la morte del fratello Elio, poi quella del padre roso da fallimenti economici e infine, appunto nel 1895, la morte della madre. Comunque già nel 1892 Aron Hector Schmitz, cioè il vero nome dell’autore, spariva dalla circolazione per far posto a Italo Svevo che cominciò a scrivere il suo primo romanzo, Una vita (in verità si doveva chiamare L’inetto), che trascinò per cinque anni fino a proporlo all’editore Treves. Respinto da questi esce a spese dello scrittore triestino, ma con l’edizione Vram e con la data posticipata al 1893.
Di sicuro Svevo non immaginò il riscontro che il romanzo ebbe poi in avanti, tanto che oggi, insieme agli altri due libri (Senilità e La coscienza di Zeno) e a tutta una serie di racconti, possono essere considerati letterariamente alla stregua di un Musil o di un Pirandello.
Ma di cosa parla Una vita? E’ la storia di Alfonso Nitti, piccolo impiegato della banca Maller, giunto da Trieste da un paesino di campagna, dove viveva ancora con la madre. Qui conduce un’esistenza senza macchia e senza paura, piuttosto meschina, tra piccole rivalità d’ufficio e la quotidianità banale della casa presso cui è pensionante, quella dei Lanucci, che seppur non troppo invadenti, anche loro alla fine creeranno altri pasticci all’uomo.
L’incontro con Annette, la figlia del suo principale, sembra dare una svolta all’esistenza del Nitti, ma incomprensioni ed incertezze lo porteranno alla fine a fare i conti col proprio destino e con la condizione di essere incompreso ai più.
Svevo sembra non discostarsi molto da quello che effettivamente era nella vita di tutti i giorni. Pur raccontando gli svaghi e le distrazioni di un semplice impiegato, così si esprime (e vale la pena trascrivere tutto il periodo): Scriveva, ma poco; il suo stile, poco solido ancora, la parola impropria che diceva di più o di meno e che non colpiva mai il centro, non lo soddisfaceva. Credeva che lo studio lo avrebbe migliorato. Non aveva fretta, e quel poco che faceva era a compimento di un orario che s’era prefissato per il suo lavoro volontario. Dopo di essersi stancato alla banca e alla biblioteca, gettava in carta qualche concettino, qualche espansione romantica con se stesso e che nessun altro riceveva. Di notevole in queste espansioni vi era che il giovinetto sembrava soffrisse di certo male mondiale; alle sue reali sofferenze, alla nostalgia da cui ancora era travagliato, in queste espressioni non era dato luogo. Teneva questi scritti in conto di annotazioni rudimentali di cui voleva servirsi in un lontano avvenire per opere maggiori, drammi, romanzi e peggio.
Un quadro perfetto dove vige la regola dell’incapacità ad affrontare la realtà, innanzi tutto letteraria e infine quella personale. Negli anni successivi a Una vita Svevo cominciò ad interessarsi alle problematicità di Schopenauer, alle analisi interpretative di Joyce e a quelle più strettamente intime di Freud (di cui, con l’aiuto di un suo amico, portò a termine la traduzione del saggio Uber den Traum), ma già nel romanzo in questione aleggia l’insofferenza de protagonista che, ad un certo punto, confessa di soffrire di certo male mondiale.
Se mi è permesso di dirlo, Una vita è l’esempio più “codificato” della difficoltà del vivere, del non riuscire ad analizzare le controversie e le incomprensioni, tanto che alla fine il protagonista diventa una specie di capro espiatorio e paga le conseguenze più vistose.
Non sempre poi i seguaci di qualcuno alla fine si comportano come perfetti allievi, anzi. Abbiamo detto poc’anzi che Svevo cominciò a seguire i temi di Schopenauer, ma Alfonso non segue nemmeno il parere del suo maestro (serve traslare) a proposito di ammazzarsi. Si inganna il filosofo a considerare egoistico il suicidio. Non c’è fedeltà che tenga dinanzi a una situazione che impone la rinuncia massima alla vita. Lui è solo e penserà e agirà come uomo che si trova in una condizione che non aveva mai vissuto prima.
Alcuni anni dopo Svevo scrisse una breve favola che ora può essere letta come un omaggio al protagonista del suo primo romanzo: Un augellino fu strangolato da uno sparviero. Non gli fu lasciato il tempo che di fare una protesta molto ma molto breve. All’augellino tuttavia parve di aver fatto tutto il suo dovere e la sua animuccia volò superba sotto il sole.
L’edizione da noi considerata è:
Italo Svevo
Una vita
Dall’Oglio
Di sicuro Svevo non immaginò il riscontro che il romanzo ebbe poi in avanti, tanto che oggi, insieme agli altri due libri (Senilità e La coscienza di Zeno) e a tutta una serie di racconti, possono essere considerati letterariamente alla stregua di un Musil o di un Pirandello.
Ma di cosa parla Una vita? E’ la storia di Alfonso Nitti, piccolo impiegato della banca Maller, giunto da Trieste da un paesino di campagna, dove viveva ancora con la madre. Qui conduce un’esistenza senza macchia e senza paura, piuttosto meschina, tra piccole rivalità d’ufficio e la quotidianità banale della casa presso cui è pensionante, quella dei Lanucci, che seppur non troppo invadenti, anche loro alla fine creeranno altri pasticci all’uomo.
L’incontro con Annette, la figlia del suo principale, sembra dare una svolta all’esistenza del Nitti, ma incomprensioni ed incertezze lo porteranno alla fine a fare i conti col proprio destino e con la condizione di essere incompreso ai più.
Svevo sembra non discostarsi molto da quello che effettivamente era nella vita di tutti i giorni. Pur raccontando gli svaghi e le distrazioni di un semplice impiegato, così si esprime (e vale la pena trascrivere tutto il periodo): Scriveva, ma poco; il suo stile, poco solido ancora, la parola impropria che diceva di più o di meno e che non colpiva mai il centro, non lo soddisfaceva. Credeva che lo studio lo avrebbe migliorato. Non aveva fretta, e quel poco che faceva era a compimento di un orario che s’era prefissato per il suo lavoro volontario. Dopo di essersi stancato alla banca e alla biblioteca, gettava in carta qualche concettino, qualche espansione romantica con se stesso e che nessun altro riceveva. Di notevole in queste espansioni vi era che il giovinetto sembrava soffrisse di certo male mondiale; alle sue reali sofferenze, alla nostalgia da cui ancora era travagliato, in queste espressioni non era dato luogo. Teneva questi scritti in conto di annotazioni rudimentali di cui voleva servirsi in un lontano avvenire per opere maggiori, drammi, romanzi e peggio.
Un quadro perfetto dove vige la regola dell’incapacità ad affrontare la realtà, innanzi tutto letteraria e infine quella personale. Negli anni successivi a Una vita Svevo cominciò ad interessarsi alle problematicità di Schopenauer, alle analisi interpretative di Joyce e a quelle più strettamente intime di Freud (di cui, con l’aiuto di un suo amico, portò a termine la traduzione del saggio Uber den Traum), ma già nel romanzo in questione aleggia l’insofferenza de protagonista che, ad un certo punto, confessa di soffrire di certo male mondiale.
Se mi è permesso di dirlo, Una vita è l’esempio più “codificato” della difficoltà del vivere, del non riuscire ad analizzare le controversie e le incomprensioni, tanto che alla fine il protagonista diventa una specie di capro espiatorio e paga le conseguenze più vistose.
Non sempre poi i seguaci di qualcuno alla fine si comportano come perfetti allievi, anzi. Abbiamo detto poc’anzi che Svevo cominciò a seguire i temi di Schopenauer, ma Alfonso non segue nemmeno il parere del suo maestro (serve traslare) a proposito di ammazzarsi. Si inganna il filosofo a considerare egoistico il suicidio. Non c’è fedeltà che tenga dinanzi a una situazione che impone la rinuncia massima alla vita. Lui è solo e penserà e agirà come uomo che si trova in una condizione che non aveva mai vissuto prima.
Alcuni anni dopo Svevo scrisse una breve favola che ora può essere letta come un omaggio al protagonista del suo primo romanzo: Un augellino fu strangolato da uno sparviero. Non gli fu lasciato il tempo che di fare una protesta molto ma molto breve. All’augellino tuttavia parve di aver fatto tutto il suo dovere e la sua animuccia volò superba sotto il sole.
L’edizione da noi considerata è:
Italo Svevo
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