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Il Paradiso degli Orchi
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CLASSICI

Alfredo Ronci

La solitudine di non si sa quale numero: “La finta sorella” di Massimo Franciosa.

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Dicevano i latini (in verità per noi mortali un quasi sconosciuto, Publilio Sirio): Anche un solo capello fa la sua ombra. Che non è per niente una cosa ovvia. Ma perché prendiamo questo detto per parlare di un libro? (E sfido chiunque, anche i letterati più audaci, a parlarmi appena un po’ dell’autore e soprattutto del libro). Perché nonostante il tempo passato (1959) e nonostante le poche notizie riguardanti Massimo Franciosa scrittore, è ancora una bella storia e reggerebbe il confronto con molte altre storie contemporanee. Come a dire, e riprendo la citazione latina precedente, anche un solo capello, e aggiungo io, nemmeno troppo resistente, può dare lustro ad un periodo.
E il periodo è quello della fine degli anni cinquanta, anche se la storia racconta degli anni appena successivi alla guerra. E anche il periodo è importante perché da alcuni critici dell’epoca La finta sorella fu considerato un libro neo-realista.
Oddio, scansare il periodo sarebbe scandaloso, ma se si legge la storia anche da un altro punto di vista, rappresenta, con un tono sommesso e sgomento, la crisi e i problemi della piccola borghesia italiana, persa tra mali convincimenti ed esperienze tutte da verificare.
La vicenda ruota intorno a una madre-matrigna, a un padre che si è venuto a privare di tutte le patrie potestà, alla figlia dell’una (la finta sorella) e al figlio dell’altro che si fingono, ma fino ad un certo punto, fratello e sorella in omaggio alle consuetudini sociali della borghesia. Ma il romanzo più che nei cattivi rapporti che intercorrono fra i quattro protagonisti (in realtà l’unico vero protagonista è Ettore, il figlio) è nella maturazione del ragazzo che alla fine riconoscerà la vera natura di suo padre, della sua famiglia in cui è vissuto e dell’ambiente in cui è vissuto. E alla fine preferirà la solitudine invece che una vita piena di privazioni e di affetti. E dovrà subire anche le riserve di una donna a cui si era aggrappato: - E allora, perché la natura ci illude, ci strazia con queste lusinghe, con questi avvisi del sesso, di cose che non potranno mai avvenire? Perché l’ipocrisia della società chiama possesso fisico questo unirsi per un solo punto del corpo, e tutto il resto di noi stessi resta estraneo e lontano, uno esamina freddamente l’altro corpo, e si guardano, i nostri corpi, e si scrutano e si beffano? E i cervelli dell’uomo e della donna camminano per proprio conto, e si giudicano, mentre quello che la società dice possesso fisico si compie?
Uno dei pochi critici a non parlare direttamente di una deriva neo-realista del romanzo fu, e noi orchi lo conosciamo alla perfezione, Giose Rimanelli. A proposito di Massimo Franciosa, nell’ormai famoso, per noi, Il mestiere del furbo, diceva:
La finta sorella di Massimo Franciosa è un romanzo che ripete, in una esasperazione tutta moderna (e intellettuale) uno stato antico di certe frange della società; l’indifferenza fra persone dello stesso sangue o della stessa prigione, e naturalmente l’astio sotto la finta acquiescenza, e l’isolamento spirituale nel branco ugualmente isolato dei nostri simili. (…) E tuttavia la quasi disadorna e dimessa narrazione, con quella tensione che vi fermenta sotto, rende il libro “diverso”, aperto a far presagire esperienza, anche etiche, diverse da quelle finora decantate dal “protagonista” neorealista.
Virgilio diceva Fama crescit eundo (siamo alle voglie latine ormai), cioè la fama, andando, diventa più grande. Il libro di Franciosa non fu un grande successo, nonostante fu inserito nella cinquina del premio Strega (1959, ed era l’anno in cui vinse Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa ma c’era anche Pasolini con Una vita violenta e Augusto Frassineti con Misteri dei ministeri e altri misteri). Quello che un po’ sconvolge fu la vita letteraria di Franciosa, perché tranne qualche altro romanzetto, non ottenne altro.
Maggiore invece, durante gli stessi anni e successivamente per molti ancora, il successo personale che ottenne come sceneggiatore e scenografo. Scrive, fra l'altro, la sceneggiatura di Poveri ma belli e riceve una nomination all'Oscar come sceneggiatore di Le quattro giornate di Napoli scritto a più mani con Nanny Loy, Carlo Bernardi, Pasquale Festa Campanile e Vasco Pratolini. Nel cinema esordisce con il soggetto e la sceneggiatura di Gli Innamorati, con Pasquale Festa Campanile In seguito dirige alcuni film comico-sentimentali come Il morbidone (1966).
Al di là appunto dei successi conseguiti, ci rimane questo romanzo, ben delineato nella storia e ben strutturato nei rapporti tra i protagonisti, il che ci fa pensare che certi meccanismi letterari o certi movimenti ben delineati e di tendenza, al di là di certe presunzioni dei critici, sono soltanto trappole per ingannare gli sprovveduti o quelli che vogliono solo ‘contare’ nella letteratura.



Massimo Franciosa
La finta sorella
Vallecchi



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