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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Thomas Berger

Piccolo grande uomo

Fanucci, Pag. 567 Euro 19,00
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Pirandello a Kansas City! Con Bianciardi! Proprio, non ci facciamo mancare niente in questo rifinito periodico!

Vabbe': procediamo con ordine. Film: Il piccolo grande uomo. Finissima anni '60. Dustin Hoffmann - superba prova d'attore. Faye Dunaway - conturbante senza turbante. Chi non se li ricorda? Chi non conosce la storia del pluricentenario che rievoca i suoi primi quarant'anni, da quando, impubere, viene rapito dai Cheyenne, fino alla morte del generale Custer - sì, quello dell'Americano a Roma uàttsamèrica er cansànsìtì aho!? Una storia semplice: indiani essere buoni - e un po' ciula -, bianchi essere cattivi - molto cattivi -, Custer essere sbroccato de capòccia, e via andare.

Tutto vero, per carità. Tutto vero: a metà. Nel senso che il libro racconta - bene, scorrevole e accattivante, come san fare gli Americani popolari da Twain a Bierce alla Cornwell - la Storia, e una storia: due, quindi, a saper contare. Il film illustra la tragedia di due popoli: gli Esseri Umani, che credono che ogni cosa sia viva anche se appare morta, e si muova lungo il Grande Cerchio - e sono prede. E i Bianchi, creature inferiori (anche gli indiani sono razzisti) che sanno che ogni cosa è cosa, quindi morta, e si muovono e fanno per linee dritte (i binari della ferrovia) o squadre (le case, i campi coltivati) - e sono predatori. Ivi, libro e film camminano assieme: i visi pallidi trucidarono gli indiani sull'aria di era meglio morire da piccoli, e non ci piove.

Però, il romanzo presenta una storia parallela rispetto alla Storia: quella di un tale Jack Crabb (Crab per i sassoni è "gambero", se c'è chi non lo sa). Che è bianco, ma lo crescono gli indiani: e dunque partecipa di entrambe le civiltà. Spesso si usa tale parola senza riflettere: nel fogliettone (pieno del "cartonaccio del cinematografo" che Vittorini imputava a Fenoglio) invece questa assume un valore d'uso ben definito: modo di vedere, di pensare, di sognare, di classificare, di vivere e soprattutto morire, ovvero di uccidere e farsi uccidere. Nel protagonista il duplice sguardo, il dìplope occhio della mente s'incarna: fra gli indiani egli vive e dunque pensa come loro, e finirà per riconoscerli come unica famiglia, sola sua costanza di ragione e sentimento - pure con qualche rigurgito (e.g., Huck Finn per amico ha Jim nero come la notte, ma dichiara più volte che non è uno "sporco abolizionista"); tra i bianchi (o sentendosi bianco) tifa per il genocidio della razzaccia di parassiti con la pelle rossa, dei quali talvolta riconosce la diversa e più coerente moralità, ma che al Little Bighorn sono i "nemici", contrapposti ai "nostri ragazzi" (e Custer è sì un pazzo, ma prode, mentre i capi indiani sono tanto vanèsii e scimunìti da firmare trattati con i bianchi quando questi insistono a mazzolàrli - sì, siamo a Mars attacks!).

Non solo: nel libro, dal personaggio allea comparsa, nessuno ha un'identità semplice. Un ciabattino e un soldato blu sono italiani (gli italiani, sono bianchi?); un ufficiale è irlandese-cattolico; una sottomessa moglie di Crabb è svedese; un nero prima schiavo quindi libero fugge con i pellerossa per farsi indi guida dell'esercito contro gli indiani; la signora per bene puttaneggia, la puttana (che dovrebbe essere nipote di Jack e non lo è) si nobilita e sposa il figlio del senatore; gli americani sono nordisti e sudisti; l'essere indiano è una combinazione di realtà e fantasia, (p. 494) e comunque un nativo è frocio, uno Contrario -lo stesso a cui Piccolo Grande Uomo (che non è Jack Crabb se non per coesistenza casuale nel medesimo corpo) salva la vita, e perciò da lui sarà odiato; la sorella di Jack è mascolina prima di diventare pazza credendosi un'altra (per inciso: Calamity Jane); le squaw passano da esili giunchi e gazzelle domate a grasse matriarche matronali e bufalesse dominatrici. Persino la nordica e gentile consorte di Crabb diviene sposa dell'indiano con lui in disamistàde, e da bionda e bella e di gentile aspetto e costume si trasforma in una viràgo "redskin" dai capelli più scuri e arruffati d'una coda di cavallo, e dermosùdicia da parere cosparsa di tannìno. E il suo figlioletto cinquenne biondo e dagli occhi azzurri (è di madre scandinava!) gioca alla guerra con gli indianìni - ma nello svago infantile lui bianco che più bianco non si può interpreta la parte del pellerossa, mentre a uno dei suoi compagnucci, dalla pelle color terracotta e cheyenne di sette generazioni, tòcca di fare il "panciablu", l'americano cavalleggero. E che dire dei personaggi della leggenda aurea e nera del wile wile West - i vari Wild Bill Hickok, Wyatt Earp, Buffalo Bill, G. A. Custer, nato peraltro sotto la stessa stella mattutina del figlio di Crabb, e dunque non estraneo ma parcella di sé e della vita, del grande cerchio che tutto racchiude? Non sono essi perennemente divisi tra ciò che effettivamente sono, e ciò che - ingrandito, distorto, romanzato, gonfiato - viene rivendicato di loro?

Ecco dunque che si compone, mediante Jack Crabb e i suoi contemporanei, un affresco d'un'America dall'io diviso: terra di uomini liberi e uguali, e schiavista e sessista. Melting pot, e frazionata in mille identità nazionali, razziali, generazionali. Egualitaria e meritocratica. Esportatrice di libertà e diritti, ma imperialista, o guerrafondando - dal Messico ("ricordatevi di Alamo!") all'Iraq - o distruggendo le economie altrui, in modo da far nascere nei soggetti una dipendenza (dal whisky o dagli aiuti internazionali non importa) che rimane unica a soddisfare. Con la Bibbia in mano, fondamentalista da ritenere il papa un eretico e insegnare tale dottrina in un'università, e patria dei movimenti più irriverenti, anarchici e scandalosi. Con la testa su Marte and beyond, maestra di tecnologia, e le braccia incapaci di mandare a letto tutti i suoi ragazzini con la pancia piena. Garantista al limite del torto alla vittima, e forcaiola da infliggere al ladro di tre pizze l'ergastolo. Stati Uniti (Uniti?) che non sai se ci sono o ci fanno: con le cinquecento Nazioni Indiane, gli USA compiono un genocidio per pura cieca adesione allo "spirito del tempo" che voleva i non-bianchi "sottouomini" o addirittura estranei alla specie umana, o sperimentano le prime prove di politica coloniale - come l'Italia con l'occupazione del Sud e la repressione del brigantaggio (vedi Del Boca)? E per i torturati di Guantanamo e Abu Ghraib - e i morti del Cermìs, e Calipari - gli "States" sono la potenza che deplora e punisce degli incidenti di percorso, o la machiavellica entità che suggerisce allo sgherro "tortura, tanto poi noi ti puniremo (poco), salvando la faccia"?

Fin qui, Pirandello. Ma Bianciardi? Lui amava ricordare che, nel 1944, un ufficiale americano suggerì che Grosseto gli pareva Kansas City - città perno di questo librone. Non solo: egl'è l'unlucky Luciano che lo traduce - e si sente: al di là della tosca maniera ("tafanamento", "atticciato", "inteccherito", "sganasciare") e dell'autocitazione / strizzata d'occhio (quella "vita agra" a p.138!), c'è la classe del gran narratore di battaglie garibaldesche, e più di chi volta dal testo al suo doppio consapevole della doppiezza. Coscienza inscritta nel dare l'impressione che il messo in prototurco, khmer, lakota, sia stato invece sciacquato in Arno: e però mantenendone il sapore esotico garante dell'originale natura, fragranza, alterità.

Ma chi conosce l'opera e la vita del Nostro andrà oltre, cogliendo precise e decise assonanze nei casi del Jack Crabb multifamiliare e dimidiàto e dello scrittore-traduttore: che si dibatte tra l'origine grossetana e l'adozione milanese-rapallente; che è indeciso tra la famiglia della legge (del "toccar la penna", direbbe il capo Pellevecchia nonno adottivo di Jackie) e quella degli affetti; tra la società capitalistico-mercantil-cambialara dei bianchi (cfr. qui pp. 237 e segg., indi 409-10) e quella barattiera, poveraccia e rilassata intravista in Barberia e vagheggiata nelle pagine del suo libro maggiore; tra l'impulso a "dar di balta al carretto" e far crescere i figli dimodoché "profumeranno la terra", e la consapevolezza d'esser nella metropoli (Viaggio in Barberia, ancora) - o, come dice realisticamente Berger tramite i suoi personaggi, che quel modo di vita è finito, (p. 227) che aderirvi non funziona, se sei consapevole di qualcosa d'altro. (...) Va benissimo se tu sei nato in una tenda e la mamma ti ha portato sulle spalle, hai conosciuto la magia dal giorno in cui venisti al mondo e non hai inventato la ruota. (...) se dalla civiltà tu passi a vivere fra i selvaggi, per un poco va tutto bene, ma poi ti viene una tale curiosità di sapere quel che succede a casa che non riesci a resistere. Bisogna che tu veda, e allora ritorni, e questo può essere bene e può essere terribile, ma succede. (pp. 468-9) L'uomo non esiste da solo: Robinson in piena isola deserta ricrea la propria cittadinanza, e vi riesce pienamente quando gli si sottopone Venerdì, e le gerarchie che dànno appartenenza e identità vengono ristabilite, e lo scambio - che presuppone un "me" e un "te" diversi e separati - ridiventa operante.

Questo sapeva Bianciardi, e sulla sua pelle. Però succede che dei ragazzini a Grosseto si tuffano 'gnudi e crudi nell'Ombrone, e questa scena si ripete (protagonisti barboncelli tunisini, pirati per gioco americani, indianucci sculappianti) sull'altra sponda del Mediterraneo, sulla spiaggetta dell'isola Jackson, nell'ansa a gomito d'un fiume cheyenne, e ci si accorge che c'è una e una vita sul pianeta Terra. Singola, meravigliosa, e però - come testimoniano gli inglesini de Il Signore delle Mosche - terribile. E allora sorge il dubbio: che non sia, la doppiezza, fuga da questa perturbante semplicità? Che non ci sia fuga dalla civiltà, ma nella civiltà? O saran fughe da Fermo (Ascoli Piceno)? Mah!





di Marco Lanzòl


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