ATTUALITA'
Stefano Torossi
Roma ha l'Alzheimer
Non ci sono più dubbi. È sulla sua cartella clinica: a quasi tremila anni di età Roma ha l’Alzheimer e non sa più chi è. Perché se lo sapesse si comporterebbe in modo molto diverso. Non si farebbe sorprendere in mutande in mezzo all’immondezza o con il trucco disfatto dopo una festa in piazza.
Non si metterebbe addosso cianfrusaglie ridicole e provinciali e arriverebbe puntuale agli appuntamenti.
Parliamo naturalmente degli ubiqui cumuli d’immondezza, della inesistente manutenzione dei luoghi pubblici, del patetico albero di natale (Spelacchio) e della ridicola lupa capitolina di verzura sull’aiuola davanti all’Altare della Patria, e infine dell’infernale maledizione del traffico sulle infernali trincee degli infernali sanpietrini, grazie ai quali i tempi di qualunque percorso (e le sospensioni, sia motoristiche che umane) risultano a rischio grave.
Insomma, Roma è una di quelle belle ma inconsapevoli vecchie che in un salotto appaiono molto decorative, ma poi non sono capaci di tornare a casa da sole. Ce lo ha fatto scoprire, con il suo concerto di compleanno il 25, l’amico Edoardo Vianello, 80 anni e in gamba, con una voce che è ancora una spada. Roma, che ne ha solo 3.000, è a pezzi. Come mai?
La serata, in Piazza del Campidoglio, è partita come una bomba, ha proseguito come un missile e si è conclusa dopo due ore di sapiente intrattenimento con le canzoni che conosciamo tutti. Ricordate? Negli anni ‘60 dicevano: sì, sono solo canzonette balneari simpatiche. Nel periodo dei cantautori impegnati dicevano: sì sono solo canzonette balneari sceme e non impegnate. Adesso, mezzo secolo dopo, tutti se le ricordano, le cantano, e nessuno si fa problemi. Vuol dire che erano indovinate fin dall’inizio. Niente foto del festeggiato: sono su tutti i giornali. Invece ecco il panorama della bella vecchia inconsapevole che abbiamo gustato dalla Terrazza Caffarelli, sul Campidoglio, dove, dopo lo spettacolo, c’è stata una cena squisita e bene accompagnata da ottimi vini.
Come continuiamo a ripetere, Roma è affascinante, vista da una terrazza. Caspita se lo è! Ma appena scendi e cerchi di tornare a casa, ecco i sintomi dell’Alzheimer. Rischio di morte ad attraversare la tenebrosa Piazza Venezia. Strisce pedonali svanite nel tempo. Trappole scavate nell’asfalto. Collinette di spazzatura contese fra toponi ed enormi gabbiani. Il bus arriverà? e quando? E così via, in un crescendo da inferno dantesco.
Invece la bella vecchia ne ha ancora da raccontare; a suo modo, certo…
Hanno aperto da poco un nuovo itinerario che viola, finalmente, la zona finora irraggiungibile fra i palazzi imperiali e il Circo Massimo: una passeggiata di un chilometro che ci permette di guardare dal basso in alto i formidabili piedi di quello che era il più imponente, ricco, splendido insieme architettonico di tutta l’antichità.
Devastato, derubato, spogliato per secoli, fornendo marmi e bronzi a chiese e palazzi, ma anche mattoni triturati e calce ottenuta bruciando nelle calcare capolavori di scultura, per costruire le catapecchie dei poveri bovari medievali.
Eppure, quello che rimane (in realtà niente altro che le strutture di sostegno di terrazze e terrapieni), forse proprio perché è senza il rivestimento di marmi preziosi o intonaci dipinti, sfoggia la sua potente energia e trasmette a noi che lo vediamo venti secoli dopo la incrollabile maestà di Roma.
Sì, però, a un certo punto l’occhio ci cade sugli sciagurati abbellimenti contemporanei del percorso. E qui si sprofonda nel gusto provinciale di cui parlavamo prima, che tende a neutralizzare, addomesticandolo, l’impatto emozionante dei giganteschi ruderi.
Insomma è come se avessero chiamato il capostazione di Vattelapesca e gli avessero affidato la decorazione del sito. Ed ecco che spuntano, con la scusa di recuperare essenze del passato: timo, lavanda, cornioli e acanti, le aiuolette con le piantine in fila e la pacciamatura di schegge di corteccia.
È il gusto da stazioncina decentrata che, implacabile, disneyzza, anzi, gardalandizza tutti i nostri parchi giochi, anche se destinati agli adulti.
Per fortuna non sono arrivati a tanto, ma non ci avrebbe stupito vedere, scritto a lettere di vegetazione (una siepina di bosso), magari con accanto un orologio floreale, il nome del parco: “Palatinoland”.
Non si metterebbe addosso cianfrusaglie ridicole e provinciali e arriverebbe puntuale agli appuntamenti.
Parliamo naturalmente degli ubiqui cumuli d’immondezza, della inesistente manutenzione dei luoghi pubblici, del patetico albero di natale (Spelacchio) e della ridicola lupa capitolina di verzura sull’aiuola davanti all’Altare della Patria, e infine dell’infernale maledizione del traffico sulle infernali trincee degli infernali sanpietrini, grazie ai quali i tempi di qualunque percorso (e le sospensioni, sia motoristiche che umane) risultano a rischio grave.
Insomma, Roma è una di quelle belle ma inconsapevoli vecchie che in un salotto appaiono molto decorative, ma poi non sono capaci di tornare a casa da sole. Ce lo ha fatto scoprire, con il suo concerto di compleanno il 25, l’amico Edoardo Vianello, 80 anni e in gamba, con una voce che è ancora una spada. Roma, che ne ha solo 3.000, è a pezzi. Come mai?
La serata, in Piazza del Campidoglio, è partita come una bomba, ha proseguito come un missile e si è conclusa dopo due ore di sapiente intrattenimento con le canzoni che conosciamo tutti. Ricordate? Negli anni ‘60 dicevano: sì, sono solo canzonette balneari simpatiche. Nel periodo dei cantautori impegnati dicevano: sì sono solo canzonette balneari sceme e non impegnate. Adesso, mezzo secolo dopo, tutti se le ricordano, le cantano, e nessuno si fa problemi. Vuol dire che erano indovinate fin dall’inizio. Niente foto del festeggiato: sono su tutti i giornali. Invece ecco il panorama della bella vecchia inconsapevole che abbiamo gustato dalla Terrazza Caffarelli, sul Campidoglio, dove, dopo lo spettacolo, c’è stata una cena squisita e bene accompagnata da ottimi vini.
Come continuiamo a ripetere, Roma è affascinante, vista da una terrazza. Caspita se lo è! Ma appena scendi e cerchi di tornare a casa, ecco i sintomi dell’Alzheimer. Rischio di morte ad attraversare la tenebrosa Piazza Venezia. Strisce pedonali svanite nel tempo. Trappole scavate nell’asfalto. Collinette di spazzatura contese fra toponi ed enormi gabbiani. Il bus arriverà? e quando? E così via, in un crescendo da inferno dantesco.
Invece la bella vecchia ne ha ancora da raccontare; a suo modo, certo…
Hanno aperto da poco un nuovo itinerario che viola, finalmente, la zona finora irraggiungibile fra i palazzi imperiali e il Circo Massimo: una passeggiata di un chilometro che ci permette di guardare dal basso in alto i formidabili piedi di quello che era il più imponente, ricco, splendido insieme architettonico di tutta l’antichità.
Devastato, derubato, spogliato per secoli, fornendo marmi e bronzi a chiese e palazzi, ma anche mattoni triturati e calce ottenuta bruciando nelle calcare capolavori di scultura, per costruire le catapecchie dei poveri bovari medievali.
Eppure, quello che rimane (in realtà niente altro che le strutture di sostegno di terrazze e terrapieni), forse proprio perché è senza il rivestimento di marmi preziosi o intonaci dipinti, sfoggia la sua potente energia e trasmette a noi che lo vediamo venti secoli dopo la incrollabile maestà di Roma.
Sì, però, a un certo punto l’occhio ci cade sugli sciagurati abbellimenti contemporanei del percorso. E qui si sprofonda nel gusto provinciale di cui parlavamo prima, che tende a neutralizzare, addomesticandolo, l’impatto emozionante dei giganteschi ruderi.
Insomma è come se avessero chiamato il capostazione di Vattelapesca e gli avessero affidato la decorazione del sito. Ed ecco che spuntano, con la scusa di recuperare essenze del passato: timo, lavanda, cornioli e acanti, le aiuolette con le piantine in fila e la pacciamatura di schegge di corteccia.
È il gusto da stazioncina decentrata che, implacabile, disneyzza, anzi, gardalandizza tutti i nostri parchi giochi, anche se destinati agli adulti.
Per fortuna non sono arrivati a tanto, ma non ci avrebbe stupito vedere, scritto a lettere di vegetazione (una siepina di bosso), magari con accanto un orologio floreale, il nome del parco: “Palatinoland”.
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