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CLASSICI

Alfredo Ronci

Un realista magico non logoro? “La peste a Urana” di Raoul Maria De Angelis.

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Spesso mi capita di ragionare su una problematica letteraria che non si è mai ritratta. Anzi. E che recentemente è stata dibattuta anche da uno scrittore che poi nel corso del tempo ha dimostrato tutto il suo attaccamento al problema: Antonio Scurati.
Nel suo libercolo La letteratura dell’inesperienza cosa dice infatti lo scrittore? Questo mondo comatoso della televisione è la fine del mondo dell’esperienza, dove a scandire il tempo era l’urto con le cose, dove la “resistenza” non era soltanto un movimento politico-militare precisamente scolpito nel tempo, un momento storico particolare, ma un paradigma generale del vivere, dove resistenza faceva sempre rima con esperienza: nell’universo televisivo non ci sono più fuoricampo né controcampi.
A parte lo stile lucido e anche un po’ paraculo, Scurati mette l’attenzione su ciò che lo scrittore contemporaneo debba fare: per questo, la mia generazione di scrittori ha dovuto e deve affrontare il problema di come trasformare in opera letteraria l’assenza di un mondo eclissatosi assieme all’autorità del vivere e della testimonianza.
Se non fosse ancora del tutto chiaro Scurati insiste anche sulla inutilità della televisione e sulla quantità di beni superflui e troppo spesso soddisfatta.
Come dunque a dire che è, è stata, e di sicuro sarà la guerra, e tutto quello che le sta attorno, a qualificare la nostra essenza? Il nostro quotidiano e il nostro sapere (in questo caso, la nostra scrittura?
A questo punto allarghiamo il discorso, nel senso che si prenda ad esempio scrittori che in un modo o nell’altro, in tempi decisamente più ristretti e consoni, hanno scelto modalità di esternazione lontani, o apparentemente lontani, da quella che Scurati avrebbe definito l’esperienza.
Uno su tutti: Raoul Maria De Angelis di Terranova di Sibari. Chi era costui? Lui stesso ce lo racconta: Questo d’essere nato in paese reputo gran fortuna anche se non ve ne so spiegare il perché. Sordastro, collerico, generoso, ho la disgrazia di non sapere odiare. Tuttavia dotato di una discreta forza muscolare, ho l’impressione di essermi fatto sufficientemente rispettare più per i miei slanci che per i miei meriti. Mi pare di aver scritto almeno due libri, dei nove pubblicati – La peste a Urana e Panche gialle. Credo nel romanzo e al romanzo dedicherò la maggior parte delle mie energie. Rifiutandomi agli interventi polizieschi della ragione, ma non agli obblighi di coscienza, vi prego di dispensarmi dall’obbligo di esprimere un giudizio su me stesso e sulla mia opera.
Dunque, al di là del fatto che non potremmo mai chiedere giudizi sulla sua opera dal momento che non possiamo, teniamo però a parlare del suo La peste a Urana. Finito di scrivere nel febbraio del ’42 e pubblicato successivamente l’anno dopo, il libro non contiene assolutamente nulla sul periodo storico, diciamo sull’esperienza. Eppure il periodo fu quanto meno importante per gli esiti successivi del nostro paese. Nel ’43 addirittura Mussolini fu messo fuori dal Parlamento, E dunque?
La peste a Urana (chiamato così perché quasi contemporaneamente Camus pubblicò La peste) non mostra segnali di attenzione: è la storia in cui l’autore contrappone alle atrocità del morbo che falcia vittime per tutte le case di Urana, il logorante contagio della lussuria. Dove accanto a personaggi che dedicano il loro tempo ai sottintesi erotici (tra tutti Giovanni, giovanotto caldo e sensuale che sembra non essere attaccato dal morbo) ci sono un mucchio di altre personalità che invece sembrano arrabattarsi su vicende certo più terrene e concrete.
Ci si chiede alla fine: ma il morbo è la metafora di qualcosa che invece non va? Leggendo attentamente il testo non si vede nulla che possa essere rappresentato in quel senso.  Ci sono sì condizioni più o meno critiche (ad un certo punto l’ilare Giovanni, che poi tanto ilare non sembra, si confessa mestamente: “Ti comprendo, Giovanni, ma a che ci servirà aver tanto sofferto?” “A vivere, soltanto a vivere”.) ma niente in confronto alla normalità dell’insieme.
De Angelis dunque un realista magico di derivazione bontempelliana? O la sua scrittura tende ad andare oltre la realtà? Urana non ci dà una soluzione, semmai questa bisognerebbe trovarla in altre sedi, come per esempio nel romanzo successivo Panche gialle – Sangue negro che tratta delle persecuzioni dei nazisti contro gli ebrei.
O forse, al di là di tutte le considerazioni, De Angelis ha operato con la stessa maestria di un altro scrittore dei suoi tempi, Silvio D’Arzo. Più che la sostanza politica, nella prosa l’amore per la scrittura e per i grandi uomini del passato (per D’Arzo era soprattutto Stevenson).



L’edizione da noi considerata è:

R. M. De Angelis
La peste a Urana
Mondadori editore



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