CLASSICI
Alfredo Ronci
Una residenza felice: “Vita in villa” di Clotilde Marghieri.
Allora, immaginatevi una intellettuale, meglio ancora, una giornalista (non che le due cose possano separarsi) che, arrivata ad una certa età (perché dirlo) decide di abbandonare la città e trasferirsi in campagna, esattamente a Santa Maria la Bruna, alle pendici del Vesuvio dove, tra le cose rimarchevoli, ma non per questo fondamentale per lo spostamento, a poche centinaia di metri c’è il casale in cui visse Giacomo Leopardi e dove lo stesso creò La ginestra.
Ora, lasciate stare l’immaginazione e tornate alla realtà, perché effettivamente ci fu chi scelse la campagna invece della città e visse tra difficoltà (varie) e ricompense (molte): Clotilde Marghieri.
Questo suo Vita in villa fu la sua prima opera editoriale, che uscì per Ricciardi nel ’60 e nel ’61 (la terza edizione, per Vallecchi, e che noi andiamo ad esaminare, uscì nel’68), e conseguì buoni consensi dalla critica ufficiale (soprattutto dal De Robertis), tanto che Marghieri ci riprovò, nel 1963, pubblicando, sempre per Ricciardi, Le educande di Poggio Gherardo, a cui fu dato il premio Telese.
Marghieri non è una scrittrice famosa, anche se queste sue poche imprese (uso questo termine per il senso che traspare da questa sua opera) ci hanno regalato una romanziera piena di fascino ed assolutamente veritiera. Persino la Treccani ce la consegna (in poche righe) in questo modo: Sin dai suoi primi libri (…) la M. rivela una vocazione alla narrativa di memoria.
E’ vero, la Marghieri ci regala una narrativa di memoria, che scava nel profondo, con tutte le sue reticenze e, perché no, le sue certezze (trasferirsi in campagna è per lei una certezza) e affronta le novità (e vedremo quali) con assoluta rilevanza contemporanea senza per questo abbandonare certi suoi attaccamenti al passato.
Non me ne vogliano certi critici che s’adoprano a innalzare questo o quell’altro autore, ma nelle descrizioni dell’atmosfera e anche certe resistenze di qualche vivente, nella prosa della Marghieri ho riscontrato un’affinità elettiva con un’altra grande, anzi grandissima, scrittrice del sud, Anna Maria Ortese. Per carità, i tempi (forse no) e i luoghi sono diversi, ma sia nell’una che nell’altra ho percepito una eleganza narrativa ed una concretezza d’anima che solo in poche altre, rare, ho potuto distinguere.
La Marghieri sin dall’inizio, cioè sin dai primi momenti in cui il trasferimento in campagna l’ha messa nella condizione di confrontarsi con gli altri, ha cercato di affrontare la nuova situazione in modo del tutto ironico: “Questa è la religione del suo paese, dove sono brava gente, e questa religione l’ha fondata il ricottaro”. Si trattava di Enrico ottavo, mi ci volle un po’ per capirlo.
C’è un passo delizioso in cui si capisce, davanti alla tragedia della morte di una madre, quale sia poi il comportamento d un maschio di fronte alla ragazza che vuole sposare, che di questi tempo farebbe gridare allo scandalo più completo: E la fidanzata così fa e per sbaglio bacia anche le cugine e anche le vicine, vorrebbe baciare anche Aniello. Ma Aniello la guarda come se la vedesse la prima volta. Ha l’aria di dirle: E chi sei tu di fronte a mia madre.
Scrisse Luigi Baldacci in una recensione: … è un libro elegiaco, ma non è un libro di memoria (e questo è un suo grande merito). E’ un libro di piccole operazioni quotidiane (le battaglie per l’acqua, la luce, il telefono). E’ un’educata dissimulazione di una vita più dolorosa: mentre si allarga il cerchio della solitudine.
E la Marghieri, nonostante si apra questo cerchio, sa anche reagire (anche se, umanamente, non sa confrontarsi direttamente contro chi non possiede le sue stesse armi): se la prima parte del libro è occupata unicamente dalle descrizioni degli altri, che sono altri solo per una disposizione geografica, nella seconda parte invece è occupata da eventi che potrebbero verificarsi ovunque, ma che comunque arricchiscono (nonostante tutto) la sua esistenza: come per esempio la visita di un suo amico tedesco (Ponentino e Siberino), o il domestico che un po’ la fa da padrone (Il domestico padrone), o un sogno particolare che sembra fatto apposta per un’analisi freudiana (Un oracolo privato), o il fatto che in casa spariscono sempre alcuni gioielli (Gli anelli).
Dimentichiamoci la storia del telefono o quella addirittura della televisione (che effetto sentir parlare di Modugno o Mina), non perché non siano efficaci, anzi (quella sulla televisione è addirittura comicissima), ma perché nulla aggiungono alla realtà dell’opera e ai suoi fatti più salienti.
Clotild Marghieri, per chi non la conosceva, è stata una sorpresa indimenticabile, ma soprattutto una scrittrice umanamente imprescindibile.
L’edizione da noi considerata è:
Clotilde Marghieri
Vita in villa
Vallecchi
Ora, lasciate stare l’immaginazione e tornate alla realtà, perché effettivamente ci fu chi scelse la campagna invece della città e visse tra difficoltà (varie) e ricompense (molte): Clotilde Marghieri.
Questo suo Vita in villa fu la sua prima opera editoriale, che uscì per Ricciardi nel ’60 e nel ’61 (la terza edizione, per Vallecchi, e che noi andiamo ad esaminare, uscì nel’68), e conseguì buoni consensi dalla critica ufficiale (soprattutto dal De Robertis), tanto che Marghieri ci riprovò, nel 1963, pubblicando, sempre per Ricciardi, Le educande di Poggio Gherardo, a cui fu dato il premio Telese.
Marghieri non è una scrittrice famosa, anche se queste sue poche imprese (uso questo termine per il senso che traspare da questa sua opera) ci hanno regalato una romanziera piena di fascino ed assolutamente veritiera. Persino la Treccani ce la consegna (in poche righe) in questo modo: Sin dai suoi primi libri (…) la M. rivela una vocazione alla narrativa di memoria.
E’ vero, la Marghieri ci regala una narrativa di memoria, che scava nel profondo, con tutte le sue reticenze e, perché no, le sue certezze (trasferirsi in campagna è per lei una certezza) e affronta le novità (e vedremo quali) con assoluta rilevanza contemporanea senza per questo abbandonare certi suoi attaccamenti al passato.
Non me ne vogliano certi critici che s’adoprano a innalzare questo o quell’altro autore, ma nelle descrizioni dell’atmosfera e anche certe resistenze di qualche vivente, nella prosa della Marghieri ho riscontrato un’affinità elettiva con un’altra grande, anzi grandissima, scrittrice del sud, Anna Maria Ortese. Per carità, i tempi (forse no) e i luoghi sono diversi, ma sia nell’una che nell’altra ho percepito una eleganza narrativa ed una concretezza d’anima che solo in poche altre, rare, ho potuto distinguere.
La Marghieri sin dall’inizio, cioè sin dai primi momenti in cui il trasferimento in campagna l’ha messa nella condizione di confrontarsi con gli altri, ha cercato di affrontare la nuova situazione in modo del tutto ironico: “Questa è la religione del suo paese, dove sono brava gente, e questa religione l’ha fondata il ricottaro”. Si trattava di Enrico ottavo, mi ci volle un po’ per capirlo.
C’è un passo delizioso in cui si capisce, davanti alla tragedia della morte di una madre, quale sia poi il comportamento d un maschio di fronte alla ragazza che vuole sposare, che di questi tempo farebbe gridare allo scandalo più completo: E la fidanzata così fa e per sbaglio bacia anche le cugine e anche le vicine, vorrebbe baciare anche Aniello. Ma Aniello la guarda come se la vedesse la prima volta. Ha l’aria di dirle: E chi sei tu di fronte a mia madre.
Scrisse Luigi Baldacci in una recensione: … è un libro elegiaco, ma non è un libro di memoria (e questo è un suo grande merito). E’ un libro di piccole operazioni quotidiane (le battaglie per l’acqua, la luce, il telefono). E’ un’educata dissimulazione di una vita più dolorosa: mentre si allarga il cerchio della solitudine.
E la Marghieri, nonostante si apra questo cerchio, sa anche reagire (anche se, umanamente, non sa confrontarsi direttamente contro chi non possiede le sue stesse armi): se la prima parte del libro è occupata unicamente dalle descrizioni degli altri, che sono altri solo per una disposizione geografica, nella seconda parte invece è occupata da eventi che potrebbero verificarsi ovunque, ma che comunque arricchiscono (nonostante tutto) la sua esistenza: come per esempio la visita di un suo amico tedesco (Ponentino e Siberino), o il domestico che un po’ la fa da padrone (Il domestico padrone), o un sogno particolare che sembra fatto apposta per un’analisi freudiana (Un oracolo privato), o il fatto che in casa spariscono sempre alcuni gioielli (Gli anelli).
Dimentichiamoci la storia del telefono o quella addirittura della televisione (che effetto sentir parlare di Modugno o Mina), non perché non siano efficaci, anzi (quella sulla televisione è addirittura comicissima), ma perché nulla aggiungono alla realtà dell’opera e ai suoi fatti più salienti.
Clotild Marghieri, per chi non la conosceva, è stata una sorpresa indimenticabile, ma soprattutto una scrittrice umanamente imprescindibile.
L’edizione da noi considerata è:
Clotilde Marghieri
Vita in villa
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