CLASSICI
Alfredo Ronci
Uno scrittore ancora da decifrare: “Il prete bello” di Goffredo Parise.

Effettivamente è vero, Goffredo Parise, anno di nascita 1929, è ancora uno scrittore tutto da decifrare, soprattutto col suo libro più fortunato, e se vogliamo dirlo, più accattivante.
Il prete bello esce nel 1954. Sono anni ancora duri per l’Italia e la ricostruzione dopo la guerra è ancora agli inizi, ma la storia di questo prete sensuale e di alcuni ragazzini che gli trotterellano attorno, fece la gioia di molti lettori, tanto che il libro fu il più venduto dell’anno.
Perché dico che Goffredo Parise resta comunque uno scrittore tutto da scoprire e decifrare? Perché neanche i critici e gli informatori (sia dell’epoca e anche attuali) seppero concordare sul senso e soprattutto sulla qualità e le indicazioni del libro in questione.
Nella Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, la narrativa di Parise viene selezionata in tre parti: la prima, fantastica e lirica, è caratterizzata dal capolavoro d’esordio Il ragazzo morto e le comete. La seconda, grottesca e pop, brilla per il romanzo ll padrone. La terza, seriale ed “elementare”, è determinata da Sillabario I e Sillabario II.
E Il prete bello? Non si sa se non venga nominato perché troppo sbandierato e poco apprezzato o forse perché non trova una linea di condotta comune. Fatto sta che non c’è.
Ma nemmeno la copertina del libro che abbiamo letto noi (edizioni Garzanti) risolve l’inghippo: Vizi e pettegolezzi della vita di provincia in uno dei più spregiudicati romanzi del neorealismo italiano.
Ebbene sì, ma anche no. Nel senso che il romanzo contiene tracce di un neorealismo che non poteva non farla da padrone (non siamo mica negli anni sessanta!) ma nello stesso tempo lo stile e una sorta di neosperimentalismo linguistico fanno de Il prete bello una sorta di novità da non lasciarla scappare. I suoi testi, che sono paradossali, ma pertinenti alla situazione storica, spiazzano il lettore con linguaggi che spesso possono essere interpretati come contropelo. Cioè contro ogni cosa finora espressa dalla narrativa italiana e non solo.
Il prete bello è, fondamentalmente, la storia di Sergio e Cena, due ragazzetti di provincia, che per racimolare un po’ di soldi per far campare le famiglie, si trovano spesso in mezzo a situazioni poco chiare e a pettegolezzi anche feroci dove a farla da padrone è un prete particolarmente bello e vogliosamente adorato e concupito dalle donne, più o meno belle e più o meno audaci del quartiere,
Praticava molti sport, era uomo di azione e, col passar dei giorni, più virile che mai d’aspetto; sempre ben vestito, garbato, fumava sigarette con un bocchino d’oro e qualche volta un pipino inglese, di sambuco, ma quest’ultimo solo in privato. Sapeva tutti i buoni odori di questo mondo ma era privo di quello che gli sarebbe spettato per dote, quello di cui la Provvidenza avrebbe dovuto fornirlo per prima cosa a custodia della sua illibatezza: l’odore da prete. Odore non aveva; non un minimo d’incenso si attaccava al tessuto della sua tonaca, un sentorino di cera neppure quello, o quel selvatico che prendono i sacerdoti fin dagli inizi del seminario.
Dunque una specie di luce che però presto si rivelerà non solo come portavoce di un regime da condannare, ma anche un uomo possessivo, geloso, isterico e preda di sentori poco umani. Tanto che dopo una festa nel quartiere per l’arrivo in auto nientepopodimenoche del Duce in persona, comincerà ad accusare una serie di malanni che lo porteranno ad un ricovero ospedaliero e alla morte per tubercolosi.
Ma mi sia consentito dire che Il prete bello, forse, è anche tutt’altro: la voglia di Parise di scompaginare tutto e risaltare più che l’adozione di un uomo e anche il suo martirio definitivo (nessuno mi toglie dalla mente che il finale del libro è simile alla fine del regime) il senso capitale di una amicizia fra ragazzi che anch’essa però finirà nella tragedia.
Sergio e Cena, pur nei loro contrasti giovanili e di miseria, sono davvero un’unica entità, un microcosmo di provincia denso e acceso di fermenti umani. Le ultime righe del libro, così immalinconite e tristi, e che rivelano il cupo destino di Cena, rivelano, più di ogni altra cosa, il senso ultimo da dare a un libro tanto amato e forse non troppo capito: e Cena, rifiuto di riformatorio, ladro e miserabile a dodici anni, abbandonò con essa le strade di questa terra.
L’edizione da noi considerata è
Goffredo Parise
Il prete bello
Garzanti per tutti
Il prete bello esce nel 1954. Sono anni ancora duri per l’Italia e la ricostruzione dopo la guerra è ancora agli inizi, ma la storia di questo prete sensuale e di alcuni ragazzini che gli trotterellano attorno, fece la gioia di molti lettori, tanto che il libro fu il più venduto dell’anno.
Perché dico che Goffredo Parise resta comunque uno scrittore tutto da scoprire e decifrare? Perché neanche i critici e gli informatori (sia dell’epoca e anche attuali) seppero concordare sul senso e soprattutto sulla qualità e le indicazioni del libro in questione.
Nella Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, la narrativa di Parise viene selezionata in tre parti: la prima, fantastica e lirica, è caratterizzata dal capolavoro d’esordio Il ragazzo morto e le comete. La seconda, grottesca e pop, brilla per il romanzo ll padrone. La terza, seriale ed “elementare”, è determinata da Sillabario I e Sillabario II.
E Il prete bello? Non si sa se non venga nominato perché troppo sbandierato e poco apprezzato o forse perché non trova una linea di condotta comune. Fatto sta che non c’è.
Ma nemmeno la copertina del libro che abbiamo letto noi (edizioni Garzanti) risolve l’inghippo: Vizi e pettegolezzi della vita di provincia in uno dei più spregiudicati romanzi del neorealismo italiano.
Ebbene sì, ma anche no. Nel senso che il romanzo contiene tracce di un neorealismo che non poteva non farla da padrone (non siamo mica negli anni sessanta!) ma nello stesso tempo lo stile e una sorta di neosperimentalismo linguistico fanno de Il prete bello una sorta di novità da non lasciarla scappare. I suoi testi, che sono paradossali, ma pertinenti alla situazione storica, spiazzano il lettore con linguaggi che spesso possono essere interpretati come contropelo. Cioè contro ogni cosa finora espressa dalla narrativa italiana e non solo.
Il prete bello è, fondamentalmente, la storia di Sergio e Cena, due ragazzetti di provincia, che per racimolare un po’ di soldi per far campare le famiglie, si trovano spesso in mezzo a situazioni poco chiare e a pettegolezzi anche feroci dove a farla da padrone è un prete particolarmente bello e vogliosamente adorato e concupito dalle donne, più o meno belle e più o meno audaci del quartiere,
Praticava molti sport, era uomo di azione e, col passar dei giorni, più virile che mai d’aspetto; sempre ben vestito, garbato, fumava sigarette con un bocchino d’oro e qualche volta un pipino inglese, di sambuco, ma quest’ultimo solo in privato. Sapeva tutti i buoni odori di questo mondo ma era privo di quello che gli sarebbe spettato per dote, quello di cui la Provvidenza avrebbe dovuto fornirlo per prima cosa a custodia della sua illibatezza: l’odore da prete. Odore non aveva; non un minimo d’incenso si attaccava al tessuto della sua tonaca, un sentorino di cera neppure quello, o quel selvatico che prendono i sacerdoti fin dagli inizi del seminario.
Dunque una specie di luce che però presto si rivelerà non solo come portavoce di un regime da condannare, ma anche un uomo possessivo, geloso, isterico e preda di sentori poco umani. Tanto che dopo una festa nel quartiere per l’arrivo in auto nientepopodimenoche del Duce in persona, comincerà ad accusare una serie di malanni che lo porteranno ad un ricovero ospedaliero e alla morte per tubercolosi.
Ma mi sia consentito dire che Il prete bello, forse, è anche tutt’altro: la voglia di Parise di scompaginare tutto e risaltare più che l’adozione di un uomo e anche il suo martirio definitivo (nessuno mi toglie dalla mente che il finale del libro è simile alla fine del regime) il senso capitale di una amicizia fra ragazzi che anch’essa però finirà nella tragedia.
Sergio e Cena, pur nei loro contrasti giovanili e di miseria, sono davvero un’unica entità, un microcosmo di provincia denso e acceso di fermenti umani. Le ultime righe del libro, così immalinconite e tristi, e che rivelano il cupo destino di Cena, rivelano, più di ogni altra cosa, il senso ultimo da dare a un libro tanto amato e forse non troppo capito: e Cena, rifiuto di riformatorio, ladro e miserabile a dodici anni, abbandonò con essa le strade di questa terra.
L’edizione da noi considerata è
Goffredo Parise
Il prete bello
Garzanti per tutti
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