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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Luciano Bianciardi

L'antimeridiano e Bianciardi com'era

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Luciano Bianciardi

L'ANTIMERIDIANO

opere complete - volume primo

ExCogita - ISBN Edizioni

pp. 2085 Euro 69,00



Mario Terrosi

BIANCIARDI COM'ERA

Stampa Alternativa

pp. 73 Euro 10,00




Sì. Il primo dei volumi oggetto di questa recensione costa una tredicesima. Però uno si porta a casa, non contando gli inediti, tredici libri - due dei quali (I minatori della Maremma, Viaggio in Barberia) in pratica introvabili. Si sta bene per un anno solare. Una tantum, facciamo come gli inglesi o i francesi, con gli Shakespeare o Proust da viaggio: un Autore alla mano, comodo quando si è in un albergo a Manila o a Campocatino, le piogge i guerrillas o l'Enel hanno fottuto l'elettricità, e al lobby bar dove c'è il tizio che, lui, è stato da Alatri alle isole del Langerhans, via Patagonia a Bologna si cambia.

Lo so: ammettere sto leggendo Bianciardi non è fichissimo. Non fa guadagnare punti - a meno di non essere tra quelli che Viani Delfini Capitini, hai presente? E in fondo, anche Parini... Capirai: il Nostro era grossetano e grossolano, sfigato, morto praticamente suicida. E ha scritto di minatori, garibaldini, segretariette secche, iguane editoriali, baccelloni, scarpe strette, Jannacci. E ha beffeggiato gli specialisti che, formatisi a destra e a sinistra sugli stessi libri, proponevano la medesima civiltà di cui ebbero (?) introiettati i valori e perciò succhiato l'infezione fino all'età adulta. Insomma, per chi non l'avesse capito, Bianciardi - come i suoi contemporanei e compagni in duòl Pasolini e Milani Comparetti - parla di politica. Roba del secolo scorso - debolezza del passato (Victor Cavallo).

Ma, superato questo scoglio - e la prefazione dovuta a due geni del punto e virgola -, e il non minore delle prolissità e cadute in un'ironia a tratti incomprensibile, a volte legnosa, vale la pena d'incontrare uno che aveva capito un sacco della vita - e capito che era inutile capire. Uno che, entrato per caso nel miracolo italiano, con l'integrazione nella stupida Europa in prospettiva, aveva cominciato a parlare di quell'altro miracolo. Quello che negli anni Sessanta sì, ma dell'Ottocento, aveva riunito gli italiani. Perché tutt'e due gli parevano balenghi e nati storpi. Pagati dai pulcinelli: i generosi, i fessi, gli indifesi. E invischiati dai peggiori mali italiani: l'equivoco cioè l'ambiguità; l'emigrazione dalla porca Italia che aveva soldi per erigere la grande opera dell'altare della patria più kitsch del mondo, ma non per dare l'acqua a tutti; l'analfabetismo che diviene televisivo disprezzo della cultura; l'unità messa sempre in pericolo dai demagoghi e dal disamore; il razzismo bestia serpeggiante e ora trionfante; l'esser primi nei festival chitarrosi e nelle cattedrali nel deserto, e ultimi nella scuola, negli ospedali, nella vita civile. Roba che a parlarne non si invecchia mai - nemmeno nelle parole dei pataccari, che sono le solite: suadenti, e vuote.

Insomma: il clichè nazionale ed autoassolutorio voleva e vuole gli italiani brava gente. Solari, approssimativi ma geniali, addolciti persino nel buio della guerra dalla mitezza mediterranea. E miracolati. Bianciardi piscia in prima persona su questa retorica: fa vedere l'agro, il brutto, il cattivo del popolo della pizza e delle canzoni. Dimostra che l'Italia del fàscion redivivo e dell'americanismo più becero non viene dal nulla o dall'invasione degli Hiksos: ha radici profonde e forti nella mentalità e nel costume. E il peggio è che lo fa non per le dotte analisi della sociologia brianzola, o i colori cupi del moralista un tanto al chilo, oppure il cinismo fronzuto dell'intellettuale battutaro - accidenti che fanno diventare autorevoli - bensì con una vena d'allegria di naufrago, che è, per il biografo Pino Corrias, come i ruscelli dell'Amiata. Poco, ma sempre. Voce minore quanto si vorrà: ma sentita. Ma vera. Mai noiosa. Mai leggera: solida come la gente del lavoro duro della quale, con Cassola, raccontò l'acre lotta per la sopravvivenza contro un tempo che non li voleva. Come la ciarla di rincorsa e fuga d'un diverso grande fuori: Vittorio Sereni.

A fianco del mattone-omnia propagandato, si ricorda un Bianciardi com'era, missìve commentate e raccolte da un amico ingegnoso di suo e tipografo di professione. Ci si accorge, scorrendole, d'una sottile diversità fra il tono narrativo-saggistico e la comunicazione personale, non per l'ovvia differenza stilistica e tecnica, ma emotiva: nei libri, aspri, Bianciardi ci crede ancora. Nelle lettere, non ci crede più. Di solito è il contrario - per dire: Kafka e Beckett non erano cafchiani e bechettiani. Se non fosse fourviante preso alla lettera, si potrebbe dire di lui quel che Parise capì recensendo Siciliano, che la vera vita di Pasolini stava nella letteratura di Pasolini. Fuorviante, dico, per due motivi: perché falso ideologico, oltre d'un'interpretazione in forza all' estetismo, anche per l'Autore dei Ragazzi. E perché quella parola, vita, nel poeta aveva una coloritura espressiva e psichica che nell'anarchico tende invece alla battaglia soda della lotta di classe - sebbene entrambi con la vita nelle loro opere avessero commercio. Meglio allora, per Bianciardi, piuttosto che di vita parlare di lavoro, marxianamente l'attività oggettiva umana che l'uomo fonda - però lavoro culturale e vita agra saranno i poli dell'opera. Il lavoro pompa vitalità in un organismo defedato che lo vampirizza e si fa vita - ma vita acre, alienata, cioè del suo tempo asincrona, fuori synch, e voce sola, non portavoce. Cattivo sangue che induce a grattarsi, a scavare piaghe nella pelle, e che pure non ha alternativa (se non utopica). Ed è nell'attività comunque umana - e forse nell'Africa Mediterranea, infanzia e fuga - che Bianciardi s'intuisce, infine e definitivamente, a casa. Luoghi, il lavoro e la costa dei Berberi, che hanno in comune quel che è nel sonno, dove per sei ore io non ci sono più.





di Marco Lanzòl


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Stampa Alternativa, Pag. 379 Euro 16,50

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ExCogita, Pag. 194 Euro 15,00

Achille Campanile, il primo, il più grande. Luciano Bianciardi, disincantato corsaro. Sergio Saviane, lardista appassionato. Beniamino Placido, eruditissimo rètore. Questo poker di madonne pellegrine, di candallòstia, di pellepersa, costituiscono la catena di sant'Antonio della critica alla tv italiana. Còmpito non da poco, siccome tantissime sono le famiglie stivalute che dall'incorniciato luminoso, dal convitato di vetro, dal "ti-audio-e-ti-video", dal video malandrino e desnudo e mezzobusto,

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Stampa Alternativa, Pag.163 Euro 10,00

Scriveva Oreste del Buono in una vecchia edizione BUR: Luciano Bianciardi era più amareggiato e stanco di un altro immigrato toscano, Luciano Chiarugi, quando non segnava goal perché Rivera gli aveva negato un passaggio utile. «Caro Oreste, leggilo tutto e salutami rivera (minuscolo) Luciano» rileggo nella dedica di Aprire il fuoco. Luciano è stato uno dei pochi arrabbiati italiani sinceri. Arrabbiati per cosa? Via, non siamo ingenui. Non c'è che l'imbarazzo della scelta.
Figurarsi, aggiungiamo noi, se vivesse in questi tempi di tonitruante nullità, di vuoto pneumatico come direbbe Verdone.

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