RACCONTI
Floriana Naso
La concubina del califfo

Agosto 2014
Il gorgoglio dell’acqua sul fuoco ricordava a Ranya il fragore delle cascate Gali Ali Bag, le più maestose del Kurdistan iracheno, nonché di tutto il Medio Oriente. Il profumo di tè e cardamomo, invece, la proiettò ad Amadiya, una cittadina di quattromila anni arroccata sul picco di una montagna, della quale si diceva avesse dato i natali ai "Re Magi".
Rattristata dalla nostalgia, finì di preparare il riso.
Prima di apparecchiare il vassoio nascose saggiamente la sua identità dietro il velo nero.
Pochi passi la separavano dalla sala da pranzo da cui provenivano le voci di suo padre e dell’ospite straniero. Entrò cauta, posò il pasto sulla panca e uscì rapida; ma fu in grado di ascoltare stralci di conversazione: le milizie del califfato nero avevano saccheggiato i villaggi vicini, torturando e infine sterminando uomini e bambini. Oramai Sinjar era stata occupata; questione di ore e avrebbero invaso anche Kocho.
Da mesi, Ranya e la sua famiglia, conducevano una vita di clausura che non li avrebbe più risparmiati. Non restava altra scelta che raggiungere le montagne del nord per rifugiarsi tra i Peshmerga* che le controllavano.
Uscirono verso mezzanotte provvisti solo di cibarie. Si muovevano avveduti per le strade semi deserte; i bagliori e gli echi di spari avvisavano di presidi militari molto vicini. Ma, a solo due chilometri dal valico designato, le milizie dell’Isis li intercettarono.
Furono trascinati in un edificio. Prima sgozzarono i genitori e i fratelli di Ranya, poi la caricarono sul camion insieme ad altre prigioniere.
«Uccidiamo anche questa sporca infedele yazida!» disse un jihadista al suo commilitone. E le strapparono dal capo il niqab.
«È un’eretica da impiccare!» gridò un altro. I capelli biondi e gli occhi azzurri erano un chiaro segno del demonio. Mentre Ranya attendeva mesta la decapitazione, il comandante ordinò: «La venderò come schiava e so anche chi pagherà bene per averla». Quindi partirono verso Mosul.
Lungo il percorso, Ranya sbirciava la strada attraverso i fori nel telone della camionetta. Era disseminata di cadaveri senza testa, riversi uno sull’altro.
Nessuna pietà, nemmeno per i bambini.
Il viaggio terminò in una piazzola sulla sponda orientale del fiume Tigri. Ad attendere “la merce” un gruppetto di compratori provenienti da diversi paesi arabi.
Ranya fu agguantata per i capelli come le altre e strascicata sul selciato con ancora i polsi e le caviglie legati. La bocca impastata di terra e lacrime, non osò emettere un suono. Vide avanzare verso di loro un tipo alto, sicuro di sé, con gli occhi neri e la calvizie sulle tempie. Indossava una lunga tunica bianca e un turbante nero sulla testa. Si chiamava Abdul Khelid. Con lui c’era suo figlio, quindicenne come Ranya, e un amico di nome Omar. Comprò sette yazide, compresa Ranya, e le portò a casa sua, a Raqqa.
Di prassi, le ragazze venivano controllate da due ginecologi: dovevano verificare se fossero in stato interessante o vergini. Una era incinta di tre mesi, quindi la fecero abortire. Ranya le chiese di raccontare ciò che le avevano fatto, ma le guardie la lasciarono sanguinare e soffrire così tanto, che non poteva più parlare né camminare.
Un’altra tentò la fuga, ma fu ripresa e torturata a sangue.
«Ecco quello che vi succederà se proverete a scappare, ora voi appartenete allo Stato Islamico. Rendere schiave le famiglie degli infedeli e prendere le loro donne come concubine è un aspetto stabilito in modo chiaro dalla sharia. Se qualcuno la negasse o la prendesse in giro, negherebbe e schernirebbe i versi del Corano e le predicazioni del Profeta; di conseguenza diventerebbe un traditore» sentenziò il padrone.
Trascorsero nove mesi.
Le schiave venivano sistematicamente violentate e umiliate.
Sahera, vent’anni, confidò a Ranya di essere stata venduta già tre volte; aveva provato a suicidarsi col veleno per topi, ma non c’era riuscita. I miliziani se n’erano accorti e l’avevano subito portata in ospedale per farle fare la lavanda gastrica. «Non ti lasceremo morire così facilmente» avevano detto.
Di giorno, Ranya doveva fare le pulizie e cucinare, mentre di notte aiutava il suo aguzzino a fabbricare autobombe e cinture esplosive. Raramente le veniva concesso di dormire sul materasso e di guardare la televisione. Eppure Ranya sapeva che prima o poi sarebbe finita morta ammazzata e doveva trovare una soluzione.
Ripensava spesso alla sua amata famiglia… voleva ritrovare i loro corpi e degnarli di una sepoltura; a costo di cercarli nelle decine di fosse comuni di cui aveva sentito parlare.
Omar, di tanto in tanto, faceva visita alla casa di Abdul e Ranya si accorse delle sue attenzioni.
Un giorno, trovò il coraggio di chiedergli di sposarla. Andare in moglie a un jihadista le avrebbe risparmiato violenze da parte di altri padroni, anche se sarebbe stata costretta a convertirsi all’Islam rinunciando alla sua religione, più antica persino dell’ebraismo.
La bellezza di Ranya convinse il giovane combattente.
Se da principio il jihadista non la obbligò ad avere rapporti sessuali con lui, dopo alcuni giorni cambiò idea. Le disse che ogni donna catturata sarebbe diventata musulmana se dieci fondamentalisti dell’Isis l’avessero stuprata.
Quella notte stessa, Ranya, fuggì.
La trovò, tra le macerie e ferita al volto da una mina, lo stesso partigiano a cui la famiglia yazida aveva dato ospitalità un anno prima. La trasse in salvo e la trasportò in ospedale, dove Ranya scoprì di essere incinta.
Il tentato genocidio del Daesh aveva mietuto migliaia di vittime e nessun altro sarebbe dovuto morire per mano di una sopravvissuta. La donna tenne la bambina e la chiamò Hêvî, che in curdo significa speranza.
Insieme al suo salvatore oltrepassò il confine con l’Armenia. Lì, raccontò la sua storia a un giornalista statunitense, il quale le rivelò che Abdul Khelid era, in realtà, Abū Bakr al-Baghdādī, il califfo dello stato islamico.
Grazie alla testimonianza ottenne asilo negli Stati Uniti, luogo in cui ora vive con sua figlia e da dove ancora lotta per ottenere giustizia per sé, per la propria famiglia e per tutto il popolo curdo.
*Partigiani curdi
Il gorgoglio dell’acqua sul fuoco ricordava a Ranya il fragore delle cascate Gali Ali Bag, le più maestose del Kurdistan iracheno, nonché di tutto il Medio Oriente. Il profumo di tè e cardamomo, invece, la proiettò ad Amadiya, una cittadina di quattromila anni arroccata sul picco di una montagna, della quale si diceva avesse dato i natali ai "Re Magi".
Rattristata dalla nostalgia, finì di preparare il riso.
Prima di apparecchiare il vassoio nascose saggiamente la sua identità dietro il velo nero.
Pochi passi la separavano dalla sala da pranzo da cui provenivano le voci di suo padre e dell’ospite straniero. Entrò cauta, posò il pasto sulla panca e uscì rapida; ma fu in grado di ascoltare stralci di conversazione: le milizie del califfato nero avevano saccheggiato i villaggi vicini, torturando e infine sterminando uomini e bambini. Oramai Sinjar era stata occupata; questione di ore e avrebbero invaso anche Kocho.
Da mesi, Ranya e la sua famiglia, conducevano una vita di clausura che non li avrebbe più risparmiati. Non restava altra scelta che raggiungere le montagne del nord per rifugiarsi tra i Peshmerga* che le controllavano.
Uscirono verso mezzanotte provvisti solo di cibarie. Si muovevano avveduti per le strade semi deserte; i bagliori e gli echi di spari avvisavano di presidi militari molto vicini. Ma, a solo due chilometri dal valico designato, le milizie dell’Isis li intercettarono.
Furono trascinati in un edificio. Prima sgozzarono i genitori e i fratelli di Ranya, poi la caricarono sul camion insieme ad altre prigioniere.
«Uccidiamo anche questa sporca infedele yazida!» disse un jihadista al suo commilitone. E le strapparono dal capo il niqab.
«È un’eretica da impiccare!» gridò un altro. I capelli biondi e gli occhi azzurri erano un chiaro segno del demonio. Mentre Ranya attendeva mesta la decapitazione, il comandante ordinò: «La venderò come schiava e so anche chi pagherà bene per averla». Quindi partirono verso Mosul.
Lungo il percorso, Ranya sbirciava la strada attraverso i fori nel telone della camionetta. Era disseminata di cadaveri senza testa, riversi uno sull’altro.
Nessuna pietà, nemmeno per i bambini.
Il viaggio terminò in una piazzola sulla sponda orientale del fiume Tigri. Ad attendere “la merce” un gruppetto di compratori provenienti da diversi paesi arabi.
Ranya fu agguantata per i capelli come le altre e strascicata sul selciato con ancora i polsi e le caviglie legati. La bocca impastata di terra e lacrime, non osò emettere un suono. Vide avanzare verso di loro un tipo alto, sicuro di sé, con gli occhi neri e la calvizie sulle tempie. Indossava una lunga tunica bianca e un turbante nero sulla testa. Si chiamava Abdul Khelid. Con lui c’era suo figlio, quindicenne come Ranya, e un amico di nome Omar. Comprò sette yazide, compresa Ranya, e le portò a casa sua, a Raqqa.
Di prassi, le ragazze venivano controllate da due ginecologi: dovevano verificare se fossero in stato interessante o vergini. Una era incinta di tre mesi, quindi la fecero abortire. Ranya le chiese di raccontare ciò che le avevano fatto, ma le guardie la lasciarono sanguinare e soffrire così tanto, che non poteva più parlare né camminare.
Un’altra tentò la fuga, ma fu ripresa e torturata a sangue.
«Ecco quello che vi succederà se proverete a scappare, ora voi appartenete allo Stato Islamico. Rendere schiave le famiglie degli infedeli e prendere le loro donne come concubine è un aspetto stabilito in modo chiaro dalla sharia. Se qualcuno la negasse o la prendesse in giro, negherebbe e schernirebbe i versi del Corano e le predicazioni del Profeta; di conseguenza diventerebbe un traditore» sentenziò il padrone.
Trascorsero nove mesi.
Le schiave venivano sistematicamente violentate e umiliate.
Sahera, vent’anni, confidò a Ranya di essere stata venduta già tre volte; aveva provato a suicidarsi col veleno per topi, ma non c’era riuscita. I miliziani se n’erano accorti e l’avevano subito portata in ospedale per farle fare la lavanda gastrica. «Non ti lasceremo morire così facilmente» avevano detto.
Di giorno, Ranya doveva fare le pulizie e cucinare, mentre di notte aiutava il suo aguzzino a fabbricare autobombe e cinture esplosive. Raramente le veniva concesso di dormire sul materasso e di guardare la televisione. Eppure Ranya sapeva che prima o poi sarebbe finita morta ammazzata e doveva trovare una soluzione.
Ripensava spesso alla sua amata famiglia… voleva ritrovare i loro corpi e degnarli di una sepoltura; a costo di cercarli nelle decine di fosse comuni di cui aveva sentito parlare.
Omar, di tanto in tanto, faceva visita alla casa di Abdul e Ranya si accorse delle sue attenzioni.
Un giorno, trovò il coraggio di chiedergli di sposarla. Andare in moglie a un jihadista le avrebbe risparmiato violenze da parte di altri padroni, anche se sarebbe stata costretta a convertirsi all’Islam rinunciando alla sua religione, più antica persino dell’ebraismo.
La bellezza di Ranya convinse il giovane combattente.
Se da principio il jihadista non la obbligò ad avere rapporti sessuali con lui, dopo alcuni giorni cambiò idea. Le disse che ogni donna catturata sarebbe diventata musulmana se dieci fondamentalisti dell’Isis l’avessero stuprata.
Quella notte stessa, Ranya, fuggì.
La trovò, tra le macerie e ferita al volto da una mina, lo stesso partigiano a cui la famiglia yazida aveva dato ospitalità un anno prima. La trasse in salvo e la trasportò in ospedale, dove Ranya scoprì di essere incinta.
Il tentato genocidio del Daesh aveva mietuto migliaia di vittime e nessun altro sarebbe dovuto morire per mano di una sopravvissuta. La donna tenne la bambina e la chiamò Hêvî, che in curdo significa speranza.
Insieme al suo salvatore oltrepassò il confine con l’Armenia. Lì, raccontò la sua storia a un giornalista statunitense, il quale le rivelò che Abdul Khelid era, in realtà, Abū Bakr al-Baghdādī, il califfo dello stato islamico.
Grazie alla testimonianza ottenne asilo negli Stati Uniti, luogo in cui ora vive con sua figlia e da dove ancora lotta per ottenere giustizia per sé, per la propria famiglia e per tutto il popolo curdo.
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