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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Walter Siti

Troppi paradisi

Einaudi, Pag. 425 Euro 18,50
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E mo', che scrivo? Sì, perché il testo (proust-manniano (e mannaro), nel suo genere d'autobiografia ammalata, inferma di genio - e di trasformazione del buon borghese decadente in lupo grigio discordante amante di fisicatissimi) di Siti incorpora, con buona regola "moderna", la sua propria discussione, dàndosi, e ben giustamente, arie di romanzo saggio - che tuttavia non appàlla, siccome il Nostro è narratore di buon nerbo, e se pubblicasse in economica concorrerebbe con la Tamaro a gran vantaggio dell'acquirente. Dàndosi e discutendosi, la storia glossolàlica e glossolana (quei ragazzi dalle glandi grosse accarezzati in punta di lingua - in un libro dove non si diventa mai glandi ("adulto? Mai!") -, quello sperma leccato dalle lenzuola...) si fa da sé la glossa, ("Dante autore è anche Dante personaggio", finché non si crede che per davvero andò all'inferno) e meglio di quanto ogni esimio esegeta potrebbe desiderare - e diceva il Tale: "l'uomo non è guidato da bisogni, ma da desideri". Quindi per dominare l'uomo è necessario prenderlo per le palle del sogno, impastoiandogli la lingua che lo (de)realizza (oddìo! C'entrerà pure Orwell?), far d'ogni schizzo di seme una semantica ben regolata.

E prima: Tommaso Pincio, da noi poràcci intervistato, parlava di "maestri della sparizione". Come la lettera di Poe, nascosta perché davanti agli occhi di tutti, anche Walter Siti autore si nasconde palesemente nella sua scrittura, come l'"he-man" dal corpo espanso cela nel medesimo la propria riconoscibilissima (proprio per la sua grottesca esagerazione) infantitudine: rimarcava Alberto Sordi in un'intervista che gli attori dell'ultima generazione non erano uomini, sebbene bambini cresciuti. E Siti rivendica questa "mossa del cavallo" in un pre-testo ove si avverte il Lettore che ciò che verrà ad apprendere è falso (la verità è così, d'altronde: se non si maschera da furfanteria, nessuno ci crede). Siamo nella post-realtà, quella della tv, dove ogni cosa è tanto più finta quanto più sembra effettiva (e affettiva: "sento, dunque è vero" (Perniola?)). Certo, ci sono anche accaduti veri, o verosimili: come ogni bugiardo, il romanzo per ben mentire deve esporre un minimo di fattualità. Ma questa serve appunto a dar più nerbo ai fattòidi, (cfr. Gillo Dòrfles) e a dimostrare che, dall'amalgame sapiente d'autentico e fittizio, si dimostra che il mentire può nascere da un'accorta disposizione e gaddiana "ingomitolatura" del veridico. Per somma di questi, il realismo diviene una subdola tentazione, una tecnica manipolatoria, di potere - se ne scampa, o si ha speranza di fuggirle, con la maniera, che più illustra il reale più si dichiara falsa (laddove Michelangelo pretendeva, rispettando proporzioni e prospettive (culturiste più che culturali), di contrabbandare un'immagine (una rappresentazione e l'ideologia connessa) per verità). Si ribalta dunque il portato di tante dichiarazioni, manifesti, polemiche: la vita non è arte, bensì l'autobiografia è tentabile solo come opera - "facendo del vivere un parlare". Ricombinando (sì, come gli OGM e i reality) frammenti di vita, si realizza il frankenstein (e il frank'n'furter) del personaggio, fittizio ma vero, non solo perché composto di parti reali (questa in fin dei conti è la radice del falso tv, dell'ineducazione sentimentale che attua, dell'arresto di sviluppo che provoca), ma soprattutto perché il gioco delle parti nell'intero rispetta il senso inesprimibile delle singole componenti, senza schiacciarlo. Fa ciò che la tv non potrà mai fare: dire l'indicibile, mostrare il mostro (e il "normale" a lui equivalente nei congegni se non nelle pratiche) nella sua autentica mostrabilità tortuosa e desiderosa. La tv-lingua infatti depotenzia l'individuo, lo appiattisce sullo stereotipo, lo demerdizza, lo pota (cioè lo castra), lo rende gradevole, accettabile, commerciabile, diffusibile: ne ottunde perciò la sia pure grossolana integrità, alterandone il significato - così come un "deretano" non è un "culo", e come, se questo è un mondo di adulti infantili (però col kalashnikov), d'età mentale inferiore a un dodicenne del mondo antico (o del Mondo Terzo - ci scusino C. S. Peirce e Popper), ogni coito è gioco sessuale di bimbi, e l'unica maturità-consistenza saperlo e accettarlo - diventando però padre ("il primo paradiso è quello del padre"... in Appendice a Teorema).

Con questo romanzo, allora, W. S. aggiunge un ennesimo complesso capitolo al suo De rerum (post)natura (una natura sospetta quanto la pecora Dolly - ricorderanno gli assidui a questa rubrica il pezzùllo su Brian the Brain), (ri)cognizione del dolore, enciclopedia del (dis)sentire contemporaneo. Sì, è ovvio e d'obbligo il doppio intendere ("Doppi sènzi!!!", ammiccherebbe Rokko Smithersons): da un corno, il buon professore protagonista esplora le fonti inaridite o appena lacrimose del sentimento distorto, pervertito, anabolizzato (e perciò rigonfio, pantografato per adulterazione) di ciò che resta degli uomini dopo il consumismo, la tv, il virtuale - ma anche dopo l'arte "d'avanguardia" e soprattutto quel che i media hanno restituito (omogeneizzato, sofisticato e predigerito - Macdonald) di quei procedimenti e premesse e assiomi. Per l'altro verso, esprime il concetto che il dissenso (quello politico) passi attraverso il dissenso (sensuale). E' chiaro che non vi è alcun automatismo: il protagonista inveisce contro coloro che scambiavano l'esser gay con l'esser rivoluzionari; e i suoi michelangeloni à la Jouhandeau o genetici de Brest (però addolciti e biricchìni) sono fascisti e razzisti, sebbene nei fatti fin troppo tolleranti e umanitari - ricordiamo il Duvert che degli amati mascalzoncelli scopriva "hanno la testa omofoba e il corpo omofilo". Però il corpo, eccolo lì, nascosto dalla sua evidenza: pezzone di carne beefcake steroidico, culatello preadolescenziale falso d'amore per quattrini, o cazzo dritto sintetico dopo la plastica che sia, e dalla testa proclive quanto si voglia a farsi schiava dei troppi paradisi in circolazione, (dal consu/mistico agli artificiali a quello delle urì) tuttavia mantiene un that di refrattario, che affancula ideologie, condizionamenti e blablabla, condensando nel mistero (trascendente) del piacere. Il corpo, finché macchina desiderante chiusa e perfetta in sé, rappresentazione reale e non del reale, è infalsificabile: può dunque evitare la manipolazione (la simbolizzazione) e il pervertimento del desiderio che la ordina operati dal "reality" (so che sono falso, dunque sono vero - come Epimenide il cretese, e il segno appunto, aliquid pro aliquo), e dal feticismo delle merci (desidero quest'oggetto nel modo giusto, dunque esisto), e sfuggire ai loro paradisi artificiosi e virtuali - perché "non ho mai sentito che un cuore affranto si curi con l'udito". O, anche, perché "bòne parole nun so' minestre", come sosteneva mio nonno. Che era, lui, più vecchio di me.



di Marco Lanzòl


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