I Classici

La religione della Madre: “A.” di Giovanni Mariotti.
Una cosa bisogna dirla, e pure in fretta: si è sempre parlato troppo poco di Giovanni Mariotti, e quel che è stato detto non è stato mai sufficiente per innalzarlo alle vestigia più prestigiose della letteratura natia. Che detto così potrebbe sembrare una bestemmia.

L’intellettuale poco “servito”: Piero Santi e”Il sapore della menta”.
Qualcuno si chiederà: ma chi era Piero Santi? Sembra uno scherzo ma, in alcuni tomi della letteratura italiana, dei soggetto in questione non vi è traccia.

La vita “oscura” di una donna fantasiosa: “Ricordi di una telegrafista” di Nyta Jasmar.
Qualcuno di voi dirà: Nyta Jasmar chi? Ma, tra l’altro, è italiana? Beh, se non fosse stato per il parere fin troppo coinvolgente di Mario Praz che, nel suo lungo saggio dedicato per lo più alla letteratura gotica e liberty Il patto col serpente, ne parla come una vera e propria rivelazione, rimarrebbe di sicuro nella sfera degli sconosciuti se non addirittura degli inesistenti.

Il talento di essere fraintesa: “Teresa” di Neera.
Non vorrei essere di parte anch’io, ma a parte certe cadenze tipiche della letteratura del periodo, si può dire con certezza che Teresa abbia le qualità per essere un gradino sopra il resto dell’umana consorteria.

Il tempo incrostato dell’insegnante: “Il supplente” di Angelo Fiore.
Aveva ragione Geno Pampaloni quando, agli albori degli anni ’80, si permetteva di alludere alla scarsa conoscenza di Angelo Fiore, tanto che, concludendo il suo intervento, nel caso di un abbaglio avrebbe detto, manzonianamente, che, sullo scrittore, non s’è fatto apposta.

L’eterno futurista: “Stefanino” di Aldo Palazzeschi.
All’età di ottantaquattro anni Palazzeschi scriveva, e lo dico senza presunzione o quanto meno imbarazzo, di un mostro che era una vera e propria testa di cazzo.

L’ancor più misterioso Yukio Mishima: La scuola della carne.
Inutile aggiungere altro. Si sono dette tante e troppe cose su Mishima che insistere sul suo affascinante e appunto misterioso comportamento potrebbe infastidire qualche lucido intellettuale.

Il vinaiolo letterato e i suoi diari: 'Il permesso di vivere' di Bino Sanminiatelli.
Dello scrittore Sanminiatelli abbiamo preferito un diario (ne ha scritti in tutto cinque), quello che va dal primo gennaio 1959 al 31 dicembre 1962.
Dice della tentazione di raccontar se stesso: Il diarista deve nascondere l'anima e diffidare della verità, senza mai mentire.
Crediamo, dopo aver letto Il permesso di vivere, che non abbia nascosto alcunché, tanto più abbia mentito. Il suo diario è una sorta di compromesso con la vita. Sembra dire: ne approvo le regole, anche con soddisfazione, ma nessuno mi può costringere ad accettarla in toto.

La proto-dolcevita di Uberto Paolo Quintavalle: 'Segnati a dito'.
Chissà se Fellini ne era a conoscenza al momento della scrittura de La dolce vita: nel 1956, pubblicandolo a sue spese, Uberto Paolo Quintavalle, amico di Pasolini, esordì col romanzo Segnati a dito (guarda caso lo stesso fu poi ripubblicato nel novembre del '60 per la Feltrinelli dopo il boom del capolavoro felliniano) in cui si raccontavano i nuovi otia dei romani e le loro drammatiche disillusioni.

Il mistero di un libro essenziale: 'Il segreto' di Anonimo Triestino (Giorgio Voghera)
Qui si rischia di travisar discorsi e convincere i lettori di cosa non sia: Il segreto dell'Anonimo Triestino ha sempre regalato sorprese, mai disgiunte però da una più che consolidata statura letteraria dell'opera stessa.
Quando il romanzo uscì nel 1961, in prima edizione per Einaudi, ci cascò pure Linuccia Saba, la figlia del poeta, che raccontava di un libro consegnatole per posta, dopo un incontro, da un vecchio amico del padre, personaggio discreto ed integerrimo, che da anni conservava nel cassetto un libro, libro che avrebbe consegnato a persona fidata, e in lettura, solo dopo la sua dipartita.
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