Racconti

Balbet-t-are
Alle scuole medie gli altri mi chiamavano “Fi-filippa”, perché mi capitava di balbettare, non tanto spesso, per loro era abbastanza. In un momento qualsiasi qualcuno dal fondo dell'aula gridava: “Fi-filippa,” e tutti all'unisono aggiungevano: “Fa-facci 'na pippa”. Passai tutti quegli anni cercando di togliere quel nome da me.

St. Louis Blues
Andavamo in giro per gli Stati. Erano viaggi infiniti e infinite storie. E voci dalle inflessioni cangianti, cullanti talvolta. Fino a quando qualcuno s’alzava dal letargo profondo dentro cui la povertà l’aveva cacciato e iniziava a bestemmiare, blaterando che dovevamo andarcene lontano da lui e dalla sua miseria, ché non aveva tempo da perdere mentre era in attesa della morte. Perché quello starnazzare che rimproverava a noi, a suo dire, allontanava la vecchia signora, e lui non poteva permetterselo, l’attendeva, da tempo immemore.

Piccoli cambiamenti
«Se tuo padre non fosse occupato con quella giovane ballerina cubana, l’avrebbe accoppato a mani nude!», dice la donna dalla voce a filo, mentre stringe al petto la testa dell’amata figliola. Lei si libera con delicatezza dalla presa materna per stendersi sopra il divano. Chiude gli occhi e tira un sospiro profondo. Posato al pavimento, il telefono vibra. Vibra e ancora vibra. Le lacrime che scendono a comando sul volto inespressivo. Scorre i messaggi.

Disperazione
Ci sono ricordi che non attingono solo alla memoria per essere rinnovati; si installano, prepotentemente, in un'area intermedia dell'essere: una specie di limbo tra la coscienza e quell'oblio che, forse, alla fine, meriteremmo. Un giogo, insomma, dal quale non c'è da sperare libertà. Baahir, ad esempio, quella faccia l'avrebbe riconosciuta tra milioni.

L'aiutino
Solita solfa. Siamo in crisi da un paio d’anni, non capisco nemmeno il perché. Sta di fatto che, complice l’ennesimo e futile diverbio del weekend, stabiliamo di concederci un ultimo tentativo. Non è certo il periodo indicato per scialacquare. Da quando non le hanno rinnovato il contratto, fatichiamo a starci dentro con le spese. Però che fai? Butti nel cesso sette anni perché sei un po’ tirato coi soldi? Certo, prima di buttarci a capofitto riflettiamo a lungo. Siamo di quelli che non lasciano nulla al caso.

A piedi nudi verso est
Ogni storia ha il suo caffè, lo sa bene Ester. Anni di cronaca a ogni costo, di interviste che non svelano né personaggi né eventi, ma di caffè che profumano l’aria pregna di ipocrisia. In un agosto insolitamente piovoso a Brescia, Ester si trovò a dover scrivere della caduta dei regimi dell’Est. Lei che quando cadde il muro di Berlino aveva solo nove anni, cosa poteva sapere dell’Est? Lei che aveva visto la caduta del muro su un maxi schermo, seduta nel salone di una scuola elementare di provincia, che emozioni avrebbe potuto trasmettere?

No easy way out
Una canzone di un film, Rocky 3 o 4, non ricordo bene, diceva che non esiste una via d’uscita semplice. Non so a cosa si riferisse la canzone, io ho sempre pensato che fosse una sentenza applicabile quasi a qualunque cosa. Non c’è una via d’uscita semplice.

La donazione
I tempi erano maturi per restituire qualcosa alla collettività. In molti non se la passavano bene; malattie genetiche, catastrofi ambientali, crollo dei mercati finanziari, forme variegate di disagio sociale. Avevo l’imbarazzo della scelta.

Scrivi se vuoi. Ok?
Talvolta ripenso a quelle sere d’agosto. Quando, sdraiati sul prato appena tagliato, restavamo per ore a raccontarci storie sulle stelle che sembravano brillare a intermittenza. Ci piaceva l’odore dell’erba, il rumore del karaoke del vecchio vicino stonato che prendevamo sempre in giro e la sensazione delle nostre mani intrecciate. Pensavo spesso che la maggior parte dei bagliori che vedevo fossero luci di posizione degli aerei, ma mi sbagliavo con facilità. Non ci ho mai visto bene, portavo degli occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia e una montatura tartarugata, già allora mi fidavo più dei tuoi occhi che dei miei.

Il negozio dei fogli di carta
Melanoma. Questo il nome della malattia che lo teneva inchiodato alla sedia di una sterile sala d’attesa dello Spedale Civile di Brescia. Da quando aveva quattordici anni non aveva mai perso una sola giornata di lavoro in negozio. Nemmeno la domenica quando abbassata la serranda, compilava i registri contabili, appoggiandosi ai tecnigrafi d’esposizione. Renzo era seduto e accartocciava una carta pregiata giapponese, che conteneva farfalle tra la filigrana. Tra il rumore della carta si srotolavano i ricordi.
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