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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Maurizio Donazzon

Maria Misericordiosa, Gioiosa et Amorosa

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Dalla vetrina del bar, Pietro osservava l’edificio della Banca Gioiosa et Amorosa dove sarebbe entrato di lì a poco. Il cellulare squillò. Guardò stancamente il numero e riattaccò. Squillò di nuovo. Riattaccò. Quando la suoneria squillò ancora, spense il cellulare e cercò l’euro per pagare il caffè nel portafoglio consunto. Fece un sospiro e si incamminò verso la banca.
L’ufficio di Lorenzo Gava, che aveva frequentato fin troppe volte, era disseminato di pile di fogli. Sulla scrivania, vicino allo schermo del computer, la foto dei tre figli e della moglie in una spiaggia tropicale, alle pareti, alcuni disegni infantili, tra cui quello della famiglia al completo firmato “Davide”.
Gava lo salutò con un sorriso e un’amichevole stretta di mano.
“Buongiorno, signor Zanatta, come va?” chiese allegramente.
Pietro borbottò un saluto.
“Prego si accomodi” continuò il funzionario.
Pietro era venuto a chiedere un prestito di cinquemila euro, per tirare avanti, disse. Gava assunse un’espressione professionale, verificò la situazione finanziaria di Pietro e, con la faccia contrita dietro gli occhiali eleganti, disse che era costretto a negarglielo. Aveva dei sospesi con la banca che non era riuscito a saldare.
“Deve avere pazienza con i pagamenti” disse Pietro, “con questa crisi è dura.”
“Ma noi abbiamo pazienza” disse comprensivo Gava.
“Se i clienti non mi pagano, come faccio con la banca?” disse Pietro. “Due Comuni… ho fatto un lavoro mesi fa, ma non ho ancora visto un soldo. Eppure ho dovuto pagare in anticipo il materiale. I dipendenti che avevo li ho licenziati, si può andare avanti così?”
Gava annuiva solidale. Lo capiva bene, ed era costretto a vederne tanti come lui in quel momento di crisi. “Ma si metta dal punto di vista della banca” disse. “Se non esigessimo i debiti, non avremmo fondi neanche per i crediti. Mi capisce? La banca chiuderebbe.”
Pietro lo guardò accigliato, riprendendo gli argomenti che gli mulinavano ogni giorno in testa.
“L’Equitalia continua a mandarmi cartelle esattoriali. Per un soffio sono riuscito a scansare il fermo amministrativo della macchina, altrimenti come potrei lavorare? Ma il debito aumenta, perché ci sono gli interessi e le multe… non hanno pietà.” Fissò Gava. “Mi telefonano a ogni ora del giorno, mi arrivano lettere di avvocati: paga entro un mese, se non paghi ti portiamo in tribunale... Sono disperato. Non so come fare.” Indicò la foto incorniciata. “E ho anch’io una famiglia da mantenere.”
“È per tutti un momento di crisi” disse Gava. “L’economia è stagnate, ma non bisogna scoraggiarsi.”
“Io mi ammazzo” sbottò Pietro. “Non ce la faccio più ad andare avanti così.”
Calò un silenzio imbarazzato.
“Provo a chiedere al mio superiore” disse Gava. “Ma l’avverto che è molto improbabile che accettino il prestito.” Pietro lo ringraziò con un cenno del capo.
“Ciao, sono Lorenzo, ho qui il signor Zanatta… Sì, Zanatta Pietro, undici nove cinquantanove. È in difficoltà, chiedeva se era possibile un piccolo prestito… Cinquemila euro... Cinquemila, sì.”
Pietro lo osservava tra lo speranzoso e il rassegnato. Gava gli sorrise.
“Le rate del mutuo della casa e altri due prestiti. Uhm, ho capito.” Si fece più serio. “Ho capito, certo. Va bene, ciao.”
“Ha sentito anche lei?” disse rivolgendosi a Pietro. “C’è un problema con le rate del mutuo e gli altri prestiti. Non è possibile.”
Pietro si sgonfiò sulla sedia. “Io mi ammazzo” ripeté. “Nessuno che ti dà una mano. Mi ammazzo davvero, non ce la faccio più.”
Come se fosse un favore particolare, una cosa tra loro due, Gava gli allungò un biglietto da visita. Clinica Privata diceva, e sotto Madri di Maria Misericordiosa, indirizzo, telefono e, più in basso, tre cuori in rilievo con una fiamma che usciva dall’incavo, quello al centro infilzato da una spada.
Pietro non capiva. “Cos’è?” chiese. “Devo farmi curare?”
“Telefoni a questo numero” disse Gava scrivendo un numero di cellulare sul retro del biglietto. “Dica che l’ho mandata io. Poi deciderà. Si fidi.”
“Di chi devo chiedere?” chiese Pietro, poco convinto.
“Non si preoccupi, è sufficiente il numero” disse Gava.
Quando uscì dalla banca, Pietro si fermò a guardare la Piazza della Berlina, il palcoscenico della città chiuso fra tre antichi palazzi, dove i cittadini ben vestiti sfilavano la domenica. L’orologio della torre civica segnava le undici, la gente si affrettava verso le proprie destinazioni come se tutto fosse normale.
Sul cellulare c’erano sei telefonate perse, quattro dello stesso numero da cui era stato cercato al bar, più due di un’altra utenza. Aveva cambiato numero, ma la finanziaria che recuperava i crediti era riuscita a ottenere pure quello. Sfiorò i cuori infuocati in rilievo sul biglietto da visita che teneva in tasca. Tanto valeva provare a telefonare.
“Ehm… parlo con la clinica Madri di Maria Misericordiosa?”
“Chi parla?”
“Zanatta… Pietro... Mi ha dato il numero Lorenzo Gava della Banca Gioiosa et Amorosa…”
“Domani mattina alle dieci.”
“D’accordo, ma prima volevo sapere cosa…”
“Ne parliamo domani. Stanza 216. Sul biglietto da visita trova l’indirizzo.”
“Di chi devo chiedere?”
“Stanza 216.” La comunicazione fu interrotta.
“Grazie, ci vediamo... Si figuri, è stato un piacere…” recitò Pietro al cellulare. Non capiva.
Dopo aver riattaccato, squillò il cellulare. Compariva un numero locale di fisso, così rispose. Una signora gli chiese un preventivo per dipingere due stanze, cucina e soggiorno. Prese appuntamento per andare a vedere l’appartamento. Una goccia nel mare, si disse, ma almeno era un lavoro.

“Un antipasto offerto dalla casa, schie su un letto di polentina morbida” disse il cameriere. Gli adulti sorseggiavano Cartizze, i bambini erano attorno a un tablet.
Davide, il più giovane delle due famiglie, voleva tenere il tablet, gli altri bambini, dopo aver cercato di dissuaderlo glielo strapparono dalle mani. Davide si mise a gridare. Gava, dopo un’occhiataccia della moglie, stabilì che Davide poteva tenere il tablet un po’, ma poi doveva lasciarlo agli altri. Davide, per il momento soddisfatto, afferrò il tablet sorridente. Le mogli ripresero a discutere di shopping, i mariti di vacanze.
“Dove andate quest’anno?”
“Abbiamo deciso per gli Stati Uniti” disse Gava. “Un viaggio on the road. Staremo qualche giorno a Los Angeles, gli Universal Studios, Disneyland… poi andremo a Las Vegas, proseguendo per il Grand Canyon e la Monument Valley… Voi?
“Stiamo pensando di andare in Cina. Sono curioso di sapere come vivono i cinesi. Non puoi farti un’idea solo con gli immigrati di qua.”
“E con la suocera come fate? Non mi avevi detto che…”
“Abbiamo assunto una badante. Una croata, ma brava, eh? Non sono come le moldave. Brava e paziente.”

Incastonata nel verde di un parco ben curato, la clinica Madri di Maria Misericordiosa era circondata da un muro sormontato da filo spinato, cocci di vetro, e numerose telecamere di sorveglianza. Il corpo centrale della clinica era una villa veneta restaurata affiancata da una cappella. Vicini, ma anche sparsi nel parco, sorgevano moderni edifici di un candore ultraterreno.
All’entrata, addetti alla sicurezza squadravano chiunque entrasse, ma l’atrio brulicava dell’usuale via vai di un ospedale. Il personale in camice verde oppure bianco si spostava con sicurezza, chi doveva sottoporsi a visite o esami si fermava a leggere le numerose indicazioni per poi inoltrarsi in corridoi luminosi. Si avvertiva solo un leggero brusio che non riusciva a coprire il sottofondo di musica Ambient. Trovato il banco informazioni, Pietro chiese della stanza 216.
Arrivò subito un addetto alla sicurezza per accompagnarlo, una specie di giocatore di rugby che riempiva il completo nero con il corpo massiccio. Lo invitò a seguirlo con un cenno del capo. Camminava davanti a Pietro senza girarsi. Si inoltrarono per lunghi corridoi immacolati, scesero con l’ascensore due piani sottoterra, poi percorsero altri corridoi affiancati da robuste porte di legno tutte uguali con targhette in ottone numerate.
Non incontrarono nessuno, né Pietro percepì alcun rumore a parte la musica di sottofondo, sembrava quasi che le innumerevoli stanze non fossero utilizzate. Vide solo un uomo davanti a una porta che con il mocio puliva adagio il pavimento. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono, poi l’uomo abbassò la testa. Pietro ebbe la sgradevole impressione di essersi visto allo specchio. La divisa era impeccabile, ma l’uomo, che sembrava avere la sua età, mostrava uno sguardo vuoto, senza desideri.
Salirono in ascensore al terzo piano, poi si inoltrarono in nuovi corridoi, finché Pietro non perse del tutto l’orientamento. La porta della stanza 216 era identica alle altre. L’addetto bussò poi, senza attendere risposta, lasciò che Pietro entrasse e chiuse la porta alle sue spalle.
L’ampia e luminosa finestra si apriva sul parco, i verdi del fogliame e i marroni dei tronchi brillavano come in un acquario. Un uomo si ergeva in piedi dietro l’ordinatissima scrivania in vetro sulla quale erano appoggiati solo una cartellina azzurra e un computer bianco extrapiatto.
“Prego” disse indicando a Pietro una delle due poltrone di fronte alla scrivania.
L’uomo era vestito elegantemente: cravatta a disegni cashmere, camicia azzurra, giacca e panciotto blu con sottili righe marroni, fazzoletto da taschino. Occhi e bocca erano fessure incise nella pelle del viso dalla mascella decisa. I capelli corti, accuratamente pettinati, ingrigivano in lievi sfumature.
Pietro si sentì fuori posto. L’uomo aprì la cartellina, lesse in silenzio, poi la ripose allineando il lato più corto al bordo del tavolo.
“In Italia” disse, “nel triennio 2012-2014, ci sono stati 439 suicidi per la crisi economica, 198 di imprenditori. Il 17,5 per cento in questa regione, la percentuale più alta. Più 249 tentati suicidi, 11,6 per cento, la percentuale più alta, ancora in questa regione e in Sicilia.”
Pietro lo guardò in silenzio, senza capire.
“Il corpo ha un valore economico” continuò. “Se in buona salute, s’intende.” Fissò Pietro come se dovesse già trarre l’evidente conclusione, poi riprese. “È inutile sprecarlo. Ci sono persone che attendono per anni organi per i trapianti, inoltre le ricerche finanziate dalla clinica necessitano di materiali organici. Tutto ciò ha chiaramente un corrispettivo economico che, in accordo con la banca, può sanare tutti, tutti i problemi finanziari, e ridare tranquillità alle famiglie.”
Pietro non era sicuro di aver capito bene. “Vuol dire” disse, “che potrei, diciamo, donare… cioè, vendere un rene, ad esempio?”
“No. L’intero corpo.”
“Non capisco… dovrei…”
“Sì.”
Lo guardò incredulo.
“È libero di scegliere” continuò l’uomo. “I debiti, l’incertezza, l’angoscia. Oppure, la completa soluzione dei problemi, la sicurezza, la tranquillità della famiglia.”
Pietro avrebbe voluto controbattere, ma era rimasto senza parole. Rimasero entrambi in silenzio, poi l’uomo si alzò in piedi mentre, nello stesso momento, entrò l’addetto alla sicurezza che attese Pietro sulla porta.
“Sa come contattarmi” si accomiatò l’uomo rimanendo ritto oltre la scrivania.
Pietro seguì l’addetto alla sicurezza fino al banco delle informazioni, ripercorrendo la via tortuosa dell’arrivo. Avrebbe dovuto suicidarsi per pagare i propri debiti? Rimase seduto nel parcheggio, le mani sul volante, come paralizzato. Non riusciva neppure a ragionare talmente incredibile gli sembrava la proposta. Alzò il volume della suoneria, che aveva abbassato per il colloquio, e il cellulare si mise a squillare. Numero privato, meglio non rispondere, di solito non portava niente di buono, pensò. Accese l’auto per tornare a casa.

“Come mai non hai risposto quando ti ho chiamato?” gli chiese la moglie.
“Avevo abbassato la suoneria, non potevo rispondere. Poi mi sono dimenticato di alzarla” rispose. Aveva detto a Carla che era ritornato in banca per insistere sul prestito.
Erano arrivati altri solleciti da Equitalia e dall’Enel, e una raccomandata di un avvocato. Pietro mugugnò una bestemmia cacciandoli in un cassetto senza aprire le buste.
“In banca cosa ti hanno detto?”
“Niente.”
“Cioè?”
“Non mettertici anche tu.”
“Ti ho solo chiesto di spiegarmi” disse Carla con un tono di voce più alto. “Ho diritto di sapere.” Pietro la guardò immusonito. “Mi serve anche qualcosa per la spesa” continuò. “Non posso chiedere sempre soldi a Franco, e Maria vorrebbe dei jeans nuovi per andare a scuola.”
Pietro aprì il portafoglio e le porse cinquanta euro. “Bastano?”
“Me li farò bastare.” Lo guardò stanca. “Perché non ne discutiamone almeno? Sfogati se non puoi far altro.”
“Che vuoi che ti dica?” disse Pietro alzando la voce. “Che non so come pagare? Che mi hanno telefonato per un lavoro di… quanto? Diciamo che prenderò duecentocinquanta euro in nero.”
“E allora cosa pensi di fare?”
“Mi ammazzo. Ecco quello che farò.” Guardò i piatti sul tavolo. “Mangiamo, altrimenti mi passa anche la voglia.”
Al telegiornale dimostravano, citando statistiche ufficiali, che c’era una sicura ripresa economica. Carla chiacchierava con la figlia di vestiti e di scuola, Pietro e il figlio guardavano la televisione in silenzio.
Suonò il cellulare di Pietro che, dopo quattro squilli, si alzò per andare a rispondere in un’altra stanza. Era un fisso, forse un lavoro. Invece era la telefonata della finanziaria per il recupero crediti. La giovane voce femminile gli ricordò il suo debito, spiegandogli che poteva pagare in comode rate, anche se gli interessi nel frattempo erano aumentati perché non aveva iniziato a pagare alla scadenza della lettera di sollecito. Quando intendeva pagare? Potevano dargli una proroga di, al massimo, venti giorni, poi si sarebbero rivolti agli avvocati, e da lì al giudice per un decreto ingiuntivo. “Signor Zanatta, non vuole che le venga pignorata la casa, vero?” concluse.
Non riusciva ad addormentarsi. Pensava alla sua morte: la fine dei problemi, la tranquillità definitiva. Decise che il giorno dopo sarebbe tornato in banca.

Gava salutò Pietro stringendogli la mano con calore. Pietro provò schifo al contatto della pelle tiepida e liscia.
“Ma dove mi ha mandato?” disse aggressivo, sventolando il biglietto da visita della clinica. “Proprio un bel consiglio mi ha dato. Dei trafficanti di organi!”
Gava si appoggiò allo schienale della poltrona imbottita. “È uno shock quando lo si sente la prima volta, vero?” Guardò Pietro come se gli stesse facendo una confidenza. “Ma funziona, gliel’assicuro. È l’unica formula che le consente di estinguere tutti i debiti in un’unica soluzione.” Pietro era sbalordito. “Tante mogli sono venute a ringraziarmi, dopo” continuò Gava guardando Pietro con un benevolo sguardo da prete, le mani unite come se pregasse. “Sono molto seri e discreti. La famiglia e i figli sono tutelati.”
“Ma… ma…” balbettò Pietro. “Si rende conto di cosa sta dicendo?”
Gava gli si avvicinò con un sorriso complice, chinandosi sopra la scrivania. “Le hanno detto quanta gente si è suicidata in questi tre anni? Per non contare i tentativi di suicidio. E a cosa è servito? A far ricadere i problemi sugli eredi, le mogli e i figli. Equitalia, i creditori, le finanziarie, gli avvocati, il tribunale non si fermano.” Pietro lo guardava in silenzio. “Non è che tutto si risolva con una passata di spugna.” Gava si riappoggiò allo schienale della poltrona. Pietro lo fissava, la rabbia era sbollita, non sapeva cosa pensare, era confuso.
Gava continuò. “Non è facile decidere, la capisco. Ma non è il primo o l’unico che ha scelto questa soluzione, il cui obiettivo è in primo luogo la serenità della famiglia. Tante famiglie hanno potuto terminare di pagare il mutuo, conservando l’abitazione. La casa è importante.” Sbirciò il Rolex che aveva al polso. “Cosa pensa di fare?”
Pietro sapeva che la proposta era insensata. Bastava alzarsi e uscire dall’ufficio, ma era esausto. “Tutti i debiti?” chiese.
“Prima deve sottoporsi a degli esami standard presso la clinica per determinare il suo stato di salute. È sufficiente che concordi giorno e ora telefonando al numero che le ho dato. Dopo la visita le faremo un preventivo di quello che riceverà dalla banca.”
“Non viene saldato ogni debito?” chiese Pietro.
Gava si strinse nelle spalle. “Dipende dal suo stato di salute.”
“Mi ammazzo e non vengono neppure estinti tutti i debiti?” Cominciava ad arrabbiarsi di nuovo.
“È una possibilità remota. Potrebbe anche non essere fattibile per niente oppure non esserlo per coprire i suoi debiti al cento per cento…”
“Un suicidio?” lo interruppe Pietro alzando il tono di voce.
Gava sorrise. “Di solito rimane sempre qualcosa per la famiglia.”
Pietro guardò il documento che Gava teneva sulla scrivania, pronto da firmare. “Devo pagarmi pure gli esami, scommetto” disse.
“È un servizio, qualcuno lavora per farlo” rispose Gava.
Pietro commentò che gli pareva di firmare un patto con il diavolo.
“Per la sua anima non si deve preoccupare” disse in tono leggero Gava. “Se vuole c’è un prete per l’estrema unzione.”
“A pagamento anche quello...”
“C’è un’offerta libera.”
“No, grazie” disse Pietro.
“In ogni caso” l’avvertì Gava, “può recedere in ogni momento dal contratto, basta che telefoni al numero che le ho dato. Chiaramente c’è una penale.”
“E se vi denunciassi ai giornali o alla polizia?” chiese Pietro.
Gava sprofondò nella poltrona imbottita. “Non credo che alla clinica sarebbero contenti.”
Pietro immaginò che il referente della clinica lo avrebbe fissato silenzioso, e il suo sguardo, acuto come la punta di una spada, lo avrebbe trapassato, infilzandogli il cuore da parte a parte.
“Le ho proposto una via d’uscita. Sta a lei decidere” continuò Gava.
Rimasero a guardarsi in silenzio.
“D’accordo” disse Pietro.
Dopo la firma, alzandosi dalle poltrone, si strinsero la mano. Ecco come funziona adesso, pensò Pietro, il condannato a morte stringe la mano al boia che non è neppure costretto a preparare il patibolo, è il condannato che si arrangia a impiccarsi da solo con le sue mani.

Tra i due appuntamenti successivi Gava avrebbe avuto il tempo di ordinare il regalo di compleanno di Davide. C’erano state delle trattative serrate, si era accorto che il figlio di sei anni era più esperto di alcuni suoi clienti. Alla fine, aveva promesso di comperargli una minimoto. L’aveva sempre sognata anche lui da ragazzino. Tutti i bambini sognano una moto, si era detto.

Pietro si rigirò nel letto, addormentandosi a tratti, ma era un sonno leggero, poco ristoratore, dal quale si svegliò stanco. Telefonò al referente della clinica per prendere appuntamento agli esami e alla visita. In una mattinata avrebbero concluso, gli disse.
“E per… il giorno? Come funziona?” chiese Pietro.
“Ci comunica il luogo, il giorno e l’ora esatti. Un’autoambulanza verrà a prenderla, il medico stilerà un certificato di morte per infarto.”
“Non devo passare in clinica?” chiese sorpreso.
“No. È fondamentale però che gli organi non vengano rovinati.”
“Ottimo! Mi consiglia il metodo migliore, allora?” disse Pietro.
“Impiccagione. Oppure possiamo fornirle dei farmaci adatti.”
Non riuscì a ribattere, gli era venuto un nodo alla gola. Era come se una forza a cui non sapeva resistere lo trascinasse sempre più in basso.

Gava gli aveva comunicato la buona notizia. Debiti estinti e sarebbe rimasta anche una certa somma per la famiglia.
Meglio non dire nulla a Carla, si disse, ma restare solo di fronte alla decisione, per salvare la sua famiglia. Nessuno avrebbe saputo che si era suicidato, era un infarto, non doveva scervellarsi per scrivere un biglietto d’addio.
Quella mattina aveva salutato molto più affettuosamente la moglie e i figli. Franco e Maria ne erano stati un po’ infastiditi. “Dai, papà!” Carla si era insospettita. “Cosa c’è?” gli aveva chiesto. “Sei strano.” Poi era uscita per iniziare il lavoro di pulizie che aveva trovato per aiutare in casa.
Avrebbe usato un cavo elettrico che teneva nel capanno degli attrezzi, si era portato una sedia dalla cucina. Guardò l’orologio. Tra poco. Era da pazzi uccidersi per i debiti, urlava il corpo sano. Guardò in basso il cemento grigio e rugoso del pavimento e scosse la testa. Era insensato quello che stava facendo, doveva esserci un’altra soluzione, anche se ora non riusciva a immaginarla. Sbirciò l’orologio, era quasi ora. Il cellulare squillò, un numero privato. Smise solo dopo cinque interminabili suonerie. Basta, non ce la faccio più, si disse.

Sulla scrivania di Gava, l’incartamento di Pietro era nel gruppo di quelli che sarebbero stati evasi in giornata. Prima della chiusura della banca, la clinica inviava il proprio resoconto che avrebbe allegato ai fascicoli, per sistemarli poi nella cassetta di sicurezza.
La moglie non era d’accordo sulla minimoto, troppo pericolosa, ma lui aveva detto che anche Valentino Rossi aveva iniziato da bambino con le minimoto, e guarda dov’era arrivato.
“Tu vuoi che nostro figlio faccia uno sport così pericoloso?” aveva ribattuto la moglie. “No, la minimoto è esclusa.” Ma Gava aveva un cliente che gli faceva un buon prezzo. Una minimoto da cross, cinquecento euro.

Salì sulla sedia, il cappio penzolava accanto alla sua testa. Carla entrò nel capanno degli attrezzi. Rientrata in anticipo, doveva essere venuta a controllare la porta che aveva lasciato aperta.
“Cosa fai?” urlò. Gli corse contro a stringergli le gambe per sostenerlo. “Sei impazzito?” La paura si mescolò alla rabbia. “Ma non pensi ai tuoi figli? Se non t’importa di me, pensa almeno a Franco e Maria.”
Pietro scuoteva la testa senza dire nulla. Certo che teneva ai figli e a lei, alla sua famiglia, e avrebbe risolto i loro problemi se non fosse arrivata. Carla non la smetteva di urlare, mancava poco tempo. Come poteva spiegare perché lo stava facendo?
“Tu mi farai morire” disse Carla tra le lacrime. “Ci farai morire tutti.” Pietro credeva avrebbe dovuto esserle grato per il suo gesto. “Perché?… perché?… cosa pensavi di risolvere?” gridava con una voce che diventava man mano più isterica.
Pietro guardò di sfuggita l’orologio, era tardissimo. Scese dalla sedia.
“Non capisci un cazzo” le urlò. “Mi sono ammazzato di lavoro, e adesso mi ammazzo per il lavoro!” Si stava sacrificando anche per lei, pensò. Inaspettatamente Carla gli si buttò addosso a tempestarlo di deboli pugni. La spinse via bruscamente, lei e le sue parole, facendola cadere e sbattere la testa sul cemento.
Ora Carla era sul pavimento, una macchia di sangue si allargava da sotto i capelli.
“Carla…” mormorò. In ginocchio, la sollevò per le spalle, la testa dondolò come se il collo fosse di gomma molle. “Carla… ti prego, non puoi…” Squillò il cellulare. Santo Dio, pensò, anche adesso.
La suoneria squillava ancora quando il medico e l’infermiere entrarono nel capanno, aveva lasciato aperto il cancello e per fortuna Carla non l’aveva chiuso.
“È stato un incidente” balbettò Pietro.
Il medico disse all’infermiere di andare via.
“No! Aspettate!” gridò Pietro, alzandosi per afferrargli la manica. “Io adesso cosa faccio?”
Il medico e l’infermiere lo guardarono in silenzio.
“Aspettate, prendete lei” si sentì dire. “Non volevate un corpo? Ce l’avete. Prendete lei.”
“Non era questo l’accordo” disse il medico scuotendo la testa. “Non possiamo farlo.”
“Avete il vostro corpo, cosa volete ancora?” disse implorando.
“No, mi dispiace. Andiamo” disse il medico. “Chiami il 118.”
L’infermiere si intromise. “Potremo chiamare il referente e sentire cosa dice.”
Il medico si mostrò infastidito, ma Pietro si aggrappò a quel filo sottile per continuare. “Chiami il referente, la prego. Cosa le costa?” Il medico sembrava un equilibrista che sta per decidere se iniziare a camminare sulla corda tesa.
“Non abbiamo molto tempo” incalzò l’infermiere.
“Già” disse il medico.
“Provi almeno a chiamare” supplicò Pietro.
Controvoglia il medico telefonò. “Il paziente è cambiato, c’è un’altra persona al posto di quella prestabilita. Cosa facciamo?… Un incidente, dice.” Poi, rivolto a Pietro. “Chi è?”
“Mia moglie… è stato un incidente.”
“Dice che è stato un incidente in cui è rimasta coinvolta la moglie” disse il medico al telefono. “Trauma cranico, penso sia appena successo… D’accordo. Gli faccio compilare una scheda con i dati.” Dopo aver riattaccato, si rivolse a Pietro. “Va bene, ma deve passare nell’ufficio del referente entro un’ora.” Gli tese un foglio. “Mentre la trasportiamo in autoambulanza, scriva i dati di sua moglie così posso compilare il certificato di morte.” Nel certificato scrisse poi, come causa del decesso, “infarto”.
Con un cenno del capo, Pietro ringraziò l’infermiere per averlo sostenuto, quello rispose con un’alzata le spalle. Quando se ne furono andati, rimase a fissare il cemento impregnato di sangue, consapevole del cappio che pendeva sopra la sua testa. Era stato un incidente, ma non doveva finire così.

Gava mise la cartella di Pietro da parte. Una grana, ma la clinica aveva risolto.
“Vieni anche tu questo sabato?” gli chiese il collega in pausa caffè. “Andiamo a farci un giro in collina.”
“Sabato non posso, è il compleanno di Davide. Gli ho fatto un regalo strepitoso” disse Gava entusiasta. “Anche se mia moglie ancora non lo sa.”

Dopo essere andato in clinica, Pietro dovette tornare in banca per il nuovo preventivo. Prima di entrare, mise la suoneria solo in vibrazione, aveva già tre chiamate perse.
“Mi dispiace per quello che è successo” disse Gava facendolo accomodare. Sembrava dispiaciuto. “Le mie condoglianze.”
“È stato un assurdo incidente. Ero io che dovevo andarmene, non lei.”
“Una fatalità” concesse Gava. “Però, non essendo quello che avevamo concordato… Ci sono state altre spese. Mi dispiace, non riesco a mantenere le condizioni precedenti.”
“I debiti non verranno estinti?” chiese Pietro.
“Rimane una piccola parte scoperta.”
“Potrei almeno avere un acconto per pagare il funerale?” chiese Pietro stancamente, pensando a un’altra fattura che non poteva pagare.
“Devo chiedere” disse Gava, “ma non ci saranno problemi” affermò con sicurezza. Illuminò il volto in un sorriso. “Vedrà, si sistemerà tutto, almeno adesso ha ottenuto una boccata d’aria.” Salutò Pietro con una decisa stretta di mano.

Al funerale, Maria pianse durante tutta la cerimonia. Pietro le mise un braccio attorno alle spalle e, come quando era bambina, la figlia nascose il volto nel suo petto. Franco, il volto tirato, strinse coscienziosamente la mano ai colleghi di lavoro più anziani presenti al funerale e a qualche amico della scuola con cui era rimasto in contatto. Pietro abbracciò e si fece baciare da parenti con più rughe e capelli grigi di quando si erano visti l’ultima volta.
Il cellulare squillò, riconobbe il numero della clinica. Cosa volevano adesso? Si fece da parte per rispondere.
“Condoglianze.”
“Grazie” rispose meccanicamente, come aveva fatto durante il funerale.
“Data la situazione, si è aperta la possibilità di collaborare con la clinica in certe attività. Un aiuto per la famiglia.”
Non sapeva cosa dire. Gli stavano offendo un lavoro?
“Domani alle dieci, stanza 216” continuò la voce, poi interruppe la comunicazione.
Pietro guardò i figli. Qualsiasi lavoro andava bene, se era per il bene della famiglia.

Gava non stava prestando attenzione, era impegnato in una telefonata con certi clienti della banca. La minimoto si era impennata ed era slittata, Davide aveva sbattuto la testa sul bordo del marciapiede. Si precipitò vicino al corpo esanime del figlio. Non c’era polso. Se la moglie fosse stata lì sarebbero corsi al pronto soccorso nella vana speranza di un miracolo, ma sapeva i miracoli non esistono. Doveva scegliere per il bene di tutta la famiglia, chiamò il referente della clinica.
“Sono Lorenzo Gava. È successa una cosa terribile. Mio figlio è… credo sia morto...”
“Dove si trova?”
“In viale Trieste, al parcheggio.”
“C’è un medico libero, può partire adesso.”
“Non sapevo cosa fare. E… non vorrei…” Ci pensò su un attimo. “Ecco, non vorrei che rimanesse disabile… mi capisce?”
Ci fu un lungo silenzio.
“Pronto?” disse Gava.
“Per i trapianti, ha qualche mutuo che possiamo estinguere?”
“Sì.”
“Bene.”
“C’è l’autoambulanza” disse Gava.
“D’accordo.” La telefonata s’interruppe.
Quando l’autoambulanza ripartì, si disse che era meglio non raccontare tutto alla moglie, non avrebbe capito. Era stato un incidente, non aveva nulla da rimproverarsi. In fondo, aveva solo pensato al bene della famiglia.



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