CINEMA E MUSICA
Marco Minicangeli
La mia famiglia a Taipei

Uscirà a Natale, La mia famiglia a Taipei (Left-Handed Girl), film vincitore del Festival di Roma e nella selezione come migliore film straniero agli Oscar. Già segnalatosi a Cannes, si tratta della pellicola d’esordio della regista taiwanese Shih-Ching Tsou, ed è un racconto tutto al femminile che ha come protagoniste tre generazioni di donne.
Siamo a Taipei. Qui, dopo un periodo lontano dalla città, torna la madre single Shu-fen per aprire una bancarella street-food in un affollato mercato notturno. Insieme a lei sono tornate le sue due figlie: la maggiore I-Ann, ribelle e disinibita che si divide tra studio e lavoretti, e la piccola I-Jing, di appena cinque anni. La bambina è mancina e il nonno la rimprovera: quella è la mano del diavolo, deve correggersi. Sarà proprio la mano sinistra di I-Ann a innescare una serie di eventi incredibili e inaspettati che sono il succo del film. Come ha dichiarato la stessa regista si tratta, infatti, di un dettaglio solo apparentemente piccolo: in molte famiglie dell’Asia l’essere mancini è considerato ancora un difetto, “Io invece volevo raccontare il contrario: la mano sinistra è la mano della libertà, dell’indipendenza, di chi si costruisce da solo il proprio destino”.
Il film è godibile. Belle sono le immagini della città, del mercato popolato di voci e suoni, e degli odori che quasi si riescono a percepire. Piccoli gesti quotidiani delle donne che, racconta ancora Shih-Ching Tsou, “sono loro che fanno andare avanti il paese”.
Le motivazioni del premio: il film “restituisce dignità ai gesti più piccoli e alle persone invisibili. La mia famiglia a Taipei è un film che vibra vita, e nel suo silenzio trova una forza politica e poetica rara”.
Siamo a Taipei. Qui, dopo un periodo lontano dalla città, torna la madre single Shu-fen per aprire una bancarella street-food in un affollato mercato notturno. Insieme a lei sono tornate le sue due figlie: la maggiore I-Ann, ribelle e disinibita che si divide tra studio e lavoretti, e la piccola I-Jing, di appena cinque anni. La bambina è mancina e il nonno la rimprovera: quella è la mano del diavolo, deve correggersi. Sarà proprio la mano sinistra di I-Ann a innescare una serie di eventi incredibili e inaspettati che sono il succo del film. Come ha dichiarato la stessa regista si tratta, infatti, di un dettaglio solo apparentemente piccolo: in molte famiglie dell’Asia l’essere mancini è considerato ancora un difetto, “Io invece volevo raccontare il contrario: la mano sinistra è la mano della libertà, dell’indipendenza, di chi si costruisce da solo il proprio destino”.
Il film è godibile. Belle sono le immagini della città, del mercato popolato di voci e suoni, e degli odori che quasi si riescono a percepire. Piccoli gesti quotidiani delle donne che, racconta ancora Shih-Ching Tsou, “sono loro che fanno andare avanti il paese”.
Le motivazioni del premio: il film “restituisce dignità ai gesti più piccoli e alle persone invisibili. La mia famiglia a Taipei è un film che vibra vita, e nel suo silenzio trova una forza politica e poetica rara”.
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