RACCONTI
Massimo Grisafi
Dondola dondola

Che brutto sbaglio ho fatto, pa'!
Quello di tornare sui posti dove un tempo siamo stati felici. Che cosa mi dicevi sempre, tu? È un meccanismo perverso, lascia stare, non troverai più niente.
Ma io no, ci casco sempre e adesso eccomi di nuovo qua, in questa fredda mattina di dicembre, con questo vento che mi fa quasi lacrimare per la sua furia, con i capelli all’aria e le mani chiuse bene in tasca. Misuro le distanze a passi lenti, il cielo è grigio, le case pure. Nel parco, la poca gente che incontro se ne va di fretta, come se avesse paura di arrivare a casa in ritardo per il pranzo. È una domenica mattina come tante, ma non è quella domenica mattina.
Ecco, il campetto per esempio c'è ancora. Lo vedi che sbagliavi quando dicevi che non avrei trovato niente? Il campetto circondato da quella rete verde a cui ci appoggiavamo, due dita in un buco due dita nell’altro, a sorvegliare il gioco. E tu che ogni tanto ti giravi e mi dicevi: “guarda quello, guarda il numero sette. Che bravo, no? Potresti essere al suo posto, se solo t’impegnassi un po’ di più.”
Essere al suo posto, essere quell’altro: a te sarebbe piaciuto tanto. Eri così orgoglioso di me: il tuo bel maschietto che già immaginavi correre sulla fascia destra veloce come Jahir.
E guarda lì! Ci sono ancora le altalene, chissà se sono sempre quelle di allora o se le avranno cambiate. Probabilmente sì. Mi avvicino pigramente e tocco le catene che le tengono sospese, le faccio dondolare un po’. Per il gelo, sugli anelli si è formato come un velo di cristallo.
“Più forte!” urlavo io a squarciagola e tu, piccoletto com'eri, ci mettevi tutte le tue forze a spingermi. Più su, più su, sempre più su.
Più giù.
“Dondola, dondola, il vento la spinge.”
Mi allontano per non mettermi a piangere: con questo freddo le lacrime diventerebbero di ghiaccio.
Nel parco adesso c’è solo il guardiano che mi sta osservando e poca, pochissima altra gente che sta andando via. Se solo mi avvicinassi un po’ di più a lui, il guardiano attaccherebbe subito bottone. Fa parte del gioco e io ci starei.
“Che ci fa in un posto simile una bella ragazza come te?”
“Perché? È pericoloso?”
“Oh no! Se rimani qui”.
Fa parte del gioco e io ci starei. Come sempre. Nella sua guardiola, al semibuio, magari con l’odore di camicie sporche e di cibo messo a riscaldare. O sopra qualche materasso scalcagnato.
Ma oggi no, oggi proprio no. Questa domenica no. E così, mentre lui mi insegue con lo sguardo, io faccio una giravolta e cambio direzione.
E fu sempre di domenica mattina che litigammo, non è vero? Che cosa era successo, cos’era che avevi trovato? Ah, certo. Quelle cose nella mia stanza. In un primo momento avevi sorriso, quasi compiaciuto che tuo figlio si fosse dato da fare con qualche ragazza; ma poi cos’è successo? Quando ti ho detto che quelle cose erano mie, cos’è successo? Non mi ricordo, mi hai rincorso, mi hai picchiato? Hai bruciato tutto come un pazzo, sei svenuto? E mamma? Mamma che faceva? Lei piangeva in un angolo e continuava a ripetere mio dio, mio dio. Chi lo sa se i vicini invece sapevano già tutto.
E tu, tu poi sei svenuto per davvero. Per causa mia. E anche tutto questo è successo per davvero. E sempre di domenica poi, che è il giorno del calcio e il giorno del signore. Ma quale giorno del signore!
Da quella volta non volesti più parlarmi, mi facesti addirittura cambiare scuola. Mi metteste in un collegio, tu e la mamma: che ridere. Avreste voluto che mi raddrizzassero.
Papà, papà! Se sapessi quante ne ho combinate in quel collegio.
Continuo a camminare ma il freddo è diventato così insistente che mi devo riparare in un bar. Mi siedo vicino alla vetrata in modo da poter continuare a vedere il parco, la cancellata e, oltre, tutto il mondo che un tempo ci apparteneva. Chissà se anche allora c’era questo bar? O non era forse un alimentari, oppure un vini e olii?
Ordino qualcosa di caldo da bere e il cameriere, gentile, evita di guardarmi il seno.
E ancora, quella domenica che mamma mi venne a prendere perché, così mi disse, ti eri sentito male durante la notte. Facemmo il viaggio in silenzio e, quando arrivammo, tu eri appena morto. Facevi un’impressione in quel letto d’ospedale, così bianco e piccolo. Sembravi ancora più piccolo di quanto eri stato prima. Mamma piangeva e pregava, pregava e piangeva ma io sapevo bene quello a cui stava pensando. Che tu eri morto per causa mia. Di crepacuore.
Ricordo che una volta mi avevi detto che avresti voluto essere seppellito con quel bel vestito verde che ti eri comprato per il giorno del tuo matrimonio. Quando lo dissi alla mamma lei si arrabbiò: “i morti vanno seppelliti col vestito nero!” disse. E non sentì ragioni. Più io insistevo e le dicevo che eri stato tu a confessarmelo, più lei si arrabbiava e rispondeva: “sta' zitto tu! Non hai voce in capitolo.”
Certo: non avevo più voce in capitolo ormai.
Quanto mi dispiace, papà, che tu non sia potuto partire col tuo bel vestito verde. Mi ricordo che da grande avrei voluto farti riesumare per cambiarti l’abito, ma mi avevano guardato tutti con sospetto.
“Non si può fare”, mi dissero. “Lasciamo in pace i morti, eh?”
Ma è la vera pace, quella?
Papà, se potessi vedermi adesso, adesso che sono una donna. Adesso che sono in pace. Che mi diresti? Saresti ancora così severo o nel frattempo avresti cambiato opinione? Ma tu non puoi vedermi, vero? Certo che non puoi.
Finisco di bere la mia cioccolata, sono abbastanza calda dentro per poter affrontare il gelo esterno. Pago con i soldi contati, abbottono il cappotto e, mentre esco, avverto lo sguardo della cassiera fisso su di me.
Di fuori, il vento si è calmato. Faccio un passo, ne faccio un altro senza più voltarmi. Il parco, con tutto quello che c’è dentro, non mi appartiene più. È acqua passata.
Su una cosa però avevi ragione, pa': non bisogna mai tornare sui luoghi dove un tempo si è stati felici. Non c’è più niente da vedere, niente.
Solo un mucchio di rovine.
Quello di tornare sui posti dove un tempo siamo stati felici. Che cosa mi dicevi sempre, tu? È un meccanismo perverso, lascia stare, non troverai più niente.
Ma io no, ci casco sempre e adesso eccomi di nuovo qua, in questa fredda mattina di dicembre, con questo vento che mi fa quasi lacrimare per la sua furia, con i capelli all’aria e le mani chiuse bene in tasca. Misuro le distanze a passi lenti, il cielo è grigio, le case pure. Nel parco, la poca gente che incontro se ne va di fretta, come se avesse paura di arrivare a casa in ritardo per il pranzo. È una domenica mattina come tante, ma non è quella domenica mattina.
Ecco, il campetto per esempio c'è ancora. Lo vedi che sbagliavi quando dicevi che non avrei trovato niente? Il campetto circondato da quella rete verde a cui ci appoggiavamo, due dita in un buco due dita nell’altro, a sorvegliare il gioco. E tu che ogni tanto ti giravi e mi dicevi: “guarda quello, guarda il numero sette. Che bravo, no? Potresti essere al suo posto, se solo t’impegnassi un po’ di più.”
Essere al suo posto, essere quell’altro: a te sarebbe piaciuto tanto. Eri così orgoglioso di me: il tuo bel maschietto che già immaginavi correre sulla fascia destra veloce come Jahir.
E guarda lì! Ci sono ancora le altalene, chissà se sono sempre quelle di allora o se le avranno cambiate. Probabilmente sì. Mi avvicino pigramente e tocco le catene che le tengono sospese, le faccio dondolare un po’. Per il gelo, sugli anelli si è formato come un velo di cristallo.
“Più forte!” urlavo io a squarciagola e tu, piccoletto com'eri, ci mettevi tutte le tue forze a spingermi. Più su, più su, sempre più su.
Più giù.
“Dondola, dondola, il vento la spinge.”
Mi allontano per non mettermi a piangere: con questo freddo le lacrime diventerebbero di ghiaccio.
Nel parco adesso c’è solo il guardiano che mi sta osservando e poca, pochissima altra gente che sta andando via. Se solo mi avvicinassi un po’ di più a lui, il guardiano attaccherebbe subito bottone. Fa parte del gioco e io ci starei.
“Che ci fa in un posto simile una bella ragazza come te?”
“Perché? È pericoloso?”
“Oh no! Se rimani qui”.
Fa parte del gioco e io ci starei. Come sempre. Nella sua guardiola, al semibuio, magari con l’odore di camicie sporche e di cibo messo a riscaldare. O sopra qualche materasso scalcagnato.
Ma oggi no, oggi proprio no. Questa domenica no. E così, mentre lui mi insegue con lo sguardo, io faccio una giravolta e cambio direzione.
E fu sempre di domenica mattina che litigammo, non è vero? Che cosa era successo, cos’era che avevi trovato? Ah, certo. Quelle cose nella mia stanza. In un primo momento avevi sorriso, quasi compiaciuto che tuo figlio si fosse dato da fare con qualche ragazza; ma poi cos’è successo? Quando ti ho detto che quelle cose erano mie, cos’è successo? Non mi ricordo, mi hai rincorso, mi hai picchiato? Hai bruciato tutto come un pazzo, sei svenuto? E mamma? Mamma che faceva? Lei piangeva in un angolo e continuava a ripetere mio dio, mio dio. Chi lo sa se i vicini invece sapevano già tutto.
E tu, tu poi sei svenuto per davvero. Per causa mia. E anche tutto questo è successo per davvero. E sempre di domenica poi, che è il giorno del calcio e il giorno del signore. Ma quale giorno del signore!
Da quella volta non volesti più parlarmi, mi facesti addirittura cambiare scuola. Mi metteste in un collegio, tu e la mamma: che ridere. Avreste voluto che mi raddrizzassero.
Papà, papà! Se sapessi quante ne ho combinate in quel collegio.
Continuo a camminare ma il freddo è diventato così insistente che mi devo riparare in un bar. Mi siedo vicino alla vetrata in modo da poter continuare a vedere il parco, la cancellata e, oltre, tutto il mondo che un tempo ci apparteneva. Chissà se anche allora c’era questo bar? O non era forse un alimentari, oppure un vini e olii?
Ordino qualcosa di caldo da bere e il cameriere, gentile, evita di guardarmi il seno.
E ancora, quella domenica che mamma mi venne a prendere perché, così mi disse, ti eri sentito male durante la notte. Facemmo il viaggio in silenzio e, quando arrivammo, tu eri appena morto. Facevi un’impressione in quel letto d’ospedale, così bianco e piccolo. Sembravi ancora più piccolo di quanto eri stato prima. Mamma piangeva e pregava, pregava e piangeva ma io sapevo bene quello a cui stava pensando. Che tu eri morto per causa mia. Di crepacuore.
Ricordo che una volta mi avevi detto che avresti voluto essere seppellito con quel bel vestito verde che ti eri comprato per il giorno del tuo matrimonio. Quando lo dissi alla mamma lei si arrabbiò: “i morti vanno seppelliti col vestito nero!” disse. E non sentì ragioni. Più io insistevo e le dicevo che eri stato tu a confessarmelo, più lei si arrabbiava e rispondeva: “sta' zitto tu! Non hai voce in capitolo.”
Certo: non avevo più voce in capitolo ormai.
Quanto mi dispiace, papà, che tu non sia potuto partire col tuo bel vestito verde. Mi ricordo che da grande avrei voluto farti riesumare per cambiarti l’abito, ma mi avevano guardato tutti con sospetto.
“Non si può fare”, mi dissero. “Lasciamo in pace i morti, eh?”
Ma è la vera pace, quella?
Papà, se potessi vedermi adesso, adesso che sono una donna. Adesso che sono in pace. Che mi diresti? Saresti ancora così severo o nel frattempo avresti cambiato opinione? Ma tu non puoi vedermi, vero? Certo che non puoi.
Finisco di bere la mia cioccolata, sono abbastanza calda dentro per poter affrontare il gelo esterno. Pago con i soldi contati, abbottono il cappotto e, mentre esco, avverto lo sguardo della cassiera fisso su di me.
Di fuori, il vento si è calmato. Faccio un passo, ne faccio un altro senza più voltarmi. Il parco, con tutto quello che c’è dentro, non mi appartiene più. È acqua passata.
Su una cosa però avevi ragione, pa': non bisogna mai tornare sui luoghi dove un tempo si è stati felici. Non c’è più niente da vedere, niente.
Solo un mucchio di rovine.
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