RECENSIONI
Antonio Scurati
La letteratura dell'inesperienza
Tascabili Bompiani, Pag.83 Euro 6,20
Canta Ivano Fossati nel suo ultimo album: costruiremo una nuova cultura rapida ed estetica E il pensiero sarà un colore, il colore sarà un suono, il nostro suono un battito... E il pensiero sarà un minuto, il minuto un suono, il nostro suono un battito...
Cito a cecio il cantautore genovese perché offre, in sintesi, un panorama di quello che potrebbe essere la cultura di domani e che fa quasi pari con l'agile volumetto (i volumetti si sa sono sempre agili) di Antonio Scurati sullo scrivere romanzi ai tempi della televisione (è il sottotitolo)
In esso le tesi sono come le pulci in un orecchio, ma con un che di inespresso e incompiuto.
Dice l'autore: oggi la nostra letteratura, con buona pace di Marx, è generalmente priva di un contenuto... ciò che manca è quella "elementare universalità dei contenuti" che caratterizzava il neorealismo italiano del dopoguerra, quella presenza di elementi extraletterari tanto massiccia ed indiscutibile da sembrare "un dato di natura".
Sì avete capito bene. Della serie: finché c'è guerra c'è speranza. Solo la tragedia e il mestiere di vivere teso alla drammaticità realizza l'esperienza del vissuto e di conseguenza della narrativa.
Si scomoda, all'inizio, anche Calvino che, in una prefazione ad una nuova edizione del suo primo libro Il sentiero dei nidi di ragno confessò che il romanzo era dovuto alla fertilità del momento e che poi(dico io) il tutto finì nel pentolone del neorealismo.
La domanda sorge spontanea: di chi è la colpa di questa cultura (ops ...letteratura) così evanescente ed inesperta che necessariamente deve fare i conti col proprio passato, cioè con quella condizione che attingeva allo "stato di povertà" ad "una forza vitale ancora oscura" e all'"indigenza del troppo giovane"?
Risposta: Scurati crocefigge il capitalismo, col suo rendere merce qualsiasi prodotto dell'intelletto umano, le tecnologie del visuale artificiale e di conseguenza, la comunicazione ad essa collegata, cioè propria delle nuove tecnologie della visione.
In parole ancora più povere: la tanto vituperata "cultura di massa".
Riprendiamo l'autore: La cultura di massa produce, infatti, i propri costrutti immaginativi basandosi su una creazione desacralizzata, prodotta non da intellettuali e rivolta principalmente al consumo, dunque ad una pratica che distrugge l'autonomia... (pag.71).
Riconosco, in questa necessità impellente di dare luce al grigiore dei nostri tempi, un afflato sincero e per certi versi commovente, ma la tesi espressa ricorda francamente il solito cane che si morde la solita coda: l'esperienza del vissuto, quindi la sua sacralità, è dettata non solo dalle incombenze del reale (che chissà perché, fatti i debiti scongiuri, non possa appartenerci anche oggi che non siamo soggetti di guerra, ma che guerre sistematiche viviamo anche se non sulla nostra pelle... almeno noi occidentali), ma da chi la detta propriamente, cioè dallo scrittore, cioè dall'intellettuale.
Dunque lo scrittore è tale (quindi la letteratura è tale) perché vive i luoghi della sofferenza, ma li riordina anche, in un'operazione che assomiglia molto alla tela di penelope, nel senso di una assoluta primarietà del "libero arbitrio" di chi dispone, al meglio, proprio dei mezzi di trasmissione.
Non convince; men che mai quando, nelle conclusioni, l'autore cita gli unici romanzi che, in tempi di televisione e quindi di inesperienza, assurgono a modelli rovesciati (cioè validi): La Storia di Elsa Morante e Il nome della rosa di Umberto Eco. Il primo perché, supponiamo noi, pregno di esperienza di guerra, l'altro perché fregno (concedetemi l'ironico vernacolo) di un substrato storiografico.
Chiosa ancora l'autore: Il punto in cui sento di dover fare attrito è quello in cui la cultura di massa dà luogo a una mitologia euforizzante che esclude da sé il senso del tragico (pag.73).
Ma davvero Scurati pensa che viviamo una condizione simil alla Ferrarelle e che solo il tragico restituisce la consapevolezza del vivere?
di Alfredo Ronci
Cito a cecio il cantautore genovese perché offre, in sintesi, un panorama di quello che potrebbe essere la cultura di domani e che fa quasi pari con l'agile volumetto (i volumetti si sa sono sempre agili) di Antonio Scurati sullo scrivere romanzi ai tempi della televisione (è il sottotitolo)
In esso le tesi sono come le pulci in un orecchio, ma con un che di inespresso e incompiuto.
Dice l'autore: oggi la nostra letteratura, con buona pace di Marx, è generalmente priva di un contenuto... ciò che manca è quella "elementare universalità dei contenuti" che caratterizzava il neorealismo italiano del dopoguerra, quella presenza di elementi extraletterari tanto massiccia ed indiscutibile da sembrare "un dato di natura".
Sì avete capito bene. Della serie: finché c'è guerra c'è speranza. Solo la tragedia e il mestiere di vivere teso alla drammaticità realizza l'esperienza del vissuto e di conseguenza della narrativa.
Si scomoda, all'inizio, anche Calvino che, in una prefazione ad una nuova edizione del suo primo libro Il sentiero dei nidi di ragno confessò che il romanzo era dovuto alla fertilità del momento e che poi(dico io) il tutto finì nel pentolone del neorealismo.
La domanda sorge spontanea: di chi è la colpa di questa cultura (ops ...letteratura) così evanescente ed inesperta che necessariamente deve fare i conti col proprio passato, cioè con quella condizione che attingeva allo "stato di povertà" ad "una forza vitale ancora oscura" e all'"indigenza del troppo giovane"?
Risposta: Scurati crocefigge il capitalismo, col suo rendere merce qualsiasi prodotto dell'intelletto umano, le tecnologie del visuale artificiale e di conseguenza, la comunicazione ad essa collegata, cioè propria delle nuove tecnologie della visione.
In parole ancora più povere: la tanto vituperata "cultura di massa".
Riprendiamo l'autore: La cultura di massa produce, infatti, i propri costrutti immaginativi basandosi su una creazione desacralizzata, prodotta non da intellettuali e rivolta principalmente al consumo, dunque ad una pratica che distrugge l'autonomia... (pag.71).
Riconosco, in questa necessità impellente di dare luce al grigiore dei nostri tempi, un afflato sincero e per certi versi commovente, ma la tesi espressa ricorda francamente il solito cane che si morde la solita coda: l'esperienza del vissuto, quindi la sua sacralità, è dettata non solo dalle incombenze del reale (che chissà perché, fatti i debiti scongiuri, non possa appartenerci anche oggi che non siamo soggetti di guerra, ma che guerre sistematiche viviamo anche se non sulla nostra pelle... almeno noi occidentali), ma da chi la detta propriamente, cioè dallo scrittore, cioè dall'intellettuale.
Dunque lo scrittore è tale (quindi la letteratura è tale) perché vive i luoghi della sofferenza, ma li riordina anche, in un'operazione che assomiglia molto alla tela di penelope, nel senso di una assoluta primarietà del "libero arbitrio" di chi dispone, al meglio, proprio dei mezzi di trasmissione.
Non convince; men che mai quando, nelle conclusioni, l'autore cita gli unici romanzi che, in tempi di televisione e quindi di inesperienza, assurgono a modelli rovesciati (cioè validi): La Storia di Elsa Morante e Il nome della rosa di Umberto Eco. Il primo perché, supponiamo noi, pregno di esperienza di guerra, l'altro perché fregno (concedetemi l'ironico vernacolo) di un substrato storiografico.
Chiosa ancora l'autore: Il punto in cui sento di dover fare attrito è quello in cui la cultura di massa dà luogo a una mitologia euforizzante che esclude da sé il senso del tragico (pag.73).
Ma davvero Scurati pensa che viviamo una condizione simil alla Ferrarelle e che solo il tragico restituisce la consapevolezza del vivere?
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