RECENSIONI
Santiago Lòpez Petit
Amare e pensare (l'odio del voler vivere)
Le Nubi, Pag. 158 Euro 15,00
L'approccio ad Amare e pensare comporta certo più di un disagio emotivo, magari percepito come incomprensione del testo, come oscurità.
Per essere guidati alla sua lettura sono, rispetto alle mie, di certo migliori e più precise le parole del bel saggio introduttivo curato da Marco Caponera.
Rimando alla sua consultazione, ma mi permetto, ora e qui, di leggere questo libro assumendolo come oscuro; riguardandolo oscuramente.
E allora facciamo conto che il Petit si riallacci a un Eraclito, o meglio al lavoro che il greco ha voluto imprudentemente esercitare sulle afflizioni radicali e vitali dell'anima: da terapeuta, da servitore dell'anima.
Del resto, dice il filosofo spagnolo, "l'odio è padre di tutte le cose", che è un modo non velato di riappropriarsi di un'identità, di una professione di fede nei confronti della vita. Una professione di fede che parte da un punto fondamentale: la vita non esiste: ossia la vita è immaginata e, anzi deve essere immaginata da una prospettiva costante di radicale novità (sembra di sentire quello slancio verso l'altro, dato già dal punto di vista dell'altro, di Tartaglia).
Questo punto di vista nuovo è l'odio nei confronti della vita, dove l'odio è però più di una istanza polemica e ideologica di matrice anarchica o nichilista; è più della negazione dello stato vigente, il rifiuto di questo mondo del primo cristianesimo radicale, monacale e ascetico, e di tutti i movimenti affini. Per sconfinare in altri campi, è più della ribellione completa di Jasper al sistema che lega la malattia alla medicina (e quindi il peccato alla sua assoluzione).
Infatti, se Jasper vuole togliere importanza ad entrambe, Petit, al contrario, riafferma l'importanza della malattia, del male, della patologizzazione: riconosce in questa la via regia all'anima, e alla sua particolare forma di comprensione, conoscenza e sapienza.
In questo senso, è esemplare la sua riscrittura della storia di Caino e Abele nei termini viscerali di un male di famiglia: inventarsi, come per delirio, la vita; darle un nome (personizzare, come è stato proposto da Hillman): Dio; permettere al Dio che divida i fratelli; dare il potere al Dio di indurre uno dei due all'assassinio affinché il decorso morboso sia completo e, alla fine, conduca, oltre la vita, alla vita.
Questo per fare un solo esempio delle sue penetranti riscritture (penetranti come l'odio di Ares, e l'urlo intelligente di Atena), delle sue serrate riletture della realtà e, quindi, della letteratura.
E, ancora più importante, la sua scrittura stessa, dove è dato quel non a me, ma dando ascolto al discorso (Eraclito, ancora). Il discorso attraverso il quale Petit parla; attraverso il serrato e fitto bosco di citazioni ricreate, dove si sente questo chiacchierio dostoevskiano, con uno che parla facendo parlare tutti coloro che fanno di lui il parlante: brani di giornali, asserzioni liriche, enunciati che si risolvono nel loro dubbio e nel loro volere essere o non essere enunciati.
Ma è inutile, perché riconoscendo la vita come fantasia dell'odio, questo libro si fa tutto di vita. È vita. E uno non può consigliare seriamente i contenuti di una vita: uno può seriamente consigliare di vivere.
Vi consiglio di vivere questo libro. Vi consiglio di approfittare dell'estate; di approfittate della vacanza, della vacanza dai vostri impegni, dallo stato vigente, per immaginare il vostro odio alla vita.
Questo libro è un dito ficcato nel burro del cuore.
di Pier Paolo Di Mino
Per essere guidati alla sua lettura sono, rispetto alle mie, di certo migliori e più precise le parole del bel saggio introduttivo curato da Marco Caponera.
Rimando alla sua consultazione, ma mi permetto, ora e qui, di leggere questo libro assumendolo come oscuro; riguardandolo oscuramente.
E allora facciamo conto che il Petit si riallacci a un Eraclito, o meglio al lavoro che il greco ha voluto imprudentemente esercitare sulle afflizioni radicali e vitali dell'anima: da terapeuta, da servitore dell'anima.
Del resto, dice il filosofo spagnolo, "l'odio è padre di tutte le cose", che è un modo non velato di riappropriarsi di un'identità, di una professione di fede nei confronti della vita. Una professione di fede che parte da un punto fondamentale: la vita non esiste: ossia la vita è immaginata e, anzi deve essere immaginata da una prospettiva costante di radicale novità (sembra di sentire quello slancio verso l'altro, dato già dal punto di vista dell'altro, di Tartaglia).
Questo punto di vista nuovo è l'odio nei confronti della vita, dove l'odio è però più di una istanza polemica e ideologica di matrice anarchica o nichilista; è più della negazione dello stato vigente, il rifiuto di questo mondo del primo cristianesimo radicale, monacale e ascetico, e di tutti i movimenti affini. Per sconfinare in altri campi, è più della ribellione completa di Jasper al sistema che lega la malattia alla medicina (e quindi il peccato alla sua assoluzione).
Infatti, se Jasper vuole togliere importanza ad entrambe, Petit, al contrario, riafferma l'importanza della malattia, del male, della patologizzazione: riconosce in questa la via regia all'anima, e alla sua particolare forma di comprensione, conoscenza e sapienza.
In questo senso, è esemplare la sua riscrittura della storia di Caino e Abele nei termini viscerali di un male di famiglia: inventarsi, come per delirio, la vita; darle un nome (personizzare, come è stato proposto da Hillman): Dio; permettere al Dio che divida i fratelli; dare il potere al Dio di indurre uno dei due all'assassinio affinché il decorso morboso sia completo e, alla fine, conduca, oltre la vita, alla vita.
Questo per fare un solo esempio delle sue penetranti riscritture (penetranti come l'odio di Ares, e l'urlo intelligente di Atena), delle sue serrate riletture della realtà e, quindi, della letteratura.
E, ancora più importante, la sua scrittura stessa, dove è dato quel non a me, ma dando ascolto al discorso (Eraclito, ancora). Il discorso attraverso il quale Petit parla; attraverso il serrato e fitto bosco di citazioni ricreate, dove si sente questo chiacchierio dostoevskiano, con uno che parla facendo parlare tutti coloro che fanno di lui il parlante: brani di giornali, asserzioni liriche, enunciati che si risolvono nel loro dubbio e nel loro volere essere o non essere enunciati.
Ma è inutile, perché riconoscendo la vita come fantasia dell'odio, questo libro si fa tutto di vita. È vita. E uno non può consigliare seriamente i contenuti di una vita: uno può seriamente consigliare di vivere.
Vi consiglio di vivere questo libro. Vi consiglio di approfittare dell'estate; di approfittate della vacanza, della vacanza dai vostri impegni, dallo stato vigente, per immaginare il vostro odio alla vita.
Questo libro è un dito ficcato nel burro del cuore.
di Pier Paolo Di Mino
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