CLASSICI
Alfredo Ronci
Un bel sentire: “La vita involontaria” di Brianna Carafa.

Lo abbiamo detto anche nella presentazione del libro di Laura Di Falco Miracolo d’estate: è mai possibile che in certi anni e in certi ambienti (in questo caso ovviamente editoriali) ci sia sempre un uomo a presentare le opere più convincenti di una donna (riportiamo anche il caso di Alberto Moravia quando presentò Dacia Maraini, tanto per fare numero)? Come a dire che la società era ad appannaggio del sistema “maschile”?
Su Brianna Carafa, la scrittrice de La vita involontaria, l’uomo in questione è addirittura Italo Calvino (tra l’altro, pensiamo, responsabile della candidatura del libro al premio Strega del 1976), il quale scrive: … tutto si dimostra calcolato per un vero sviluppo narrativo condotto con bravura nelle successive scoperte del protagonista, cui assistiamo di capitolo in capitolo con un “crescendo” in tutti i sensi. E’ un libro di qualità: qualità narrative perché certo “succede qualcosa” e qualità di scrittura, così chiara e ferma.
Non ci sembra, in queste poche righe, che Calvino dica niente di trascendentale, ma si è spinto a tal punto da rendere La vita involontaria un vero e proprio classico.
In realtà la Carafa aveva esordito con un libro di poesie edito nel 1957 da Carucci editore e sempre nel 1957 aveva pubblicato sulla rivista Botteghe Oscure due racconti: La porta di carta e Il sordo.
Poi un vero e proprio cambiamento con La vita involontaria (la Carafa pubblicherà anche un secondo romanzo, Il ponte nel deserto, che uscirà però nel 1978, anno della sua precocissima morte).
Cosa si può dire del romanzo che portiamo in corso? Personalmente ritengo che siano due gli aspetti fondamentali (anche se uno è particolarmente poco interpretativo). Il primo riguarda un appunto che feci, su queste righe, su un altro romanzo (questa volta di uno scrittore): perché mai un letterato dovrebbe fare un’opera su di un soggetto che credo sia difficile da comprendere? Spiego meglio: Brianna Carafa ha scritto un romanzo incentrato tutto su un giovane, Paolo Pintus. La domanda, la stessa di tempo fa, è la stessa: perché una donna dovrebbe imperniare una vicenda su un uomo? E non è forse vero, come avrebbe detto Busi, che solo l’aspetto interpretativo ed autobiografico permette allo scrittore di essere reale a tutti gli effetti?
L’altro aspetto del romanzo è la sua formazione mitteleuropea: si respira un’aria da fine ottocento, primi del novecento, che porta alla memoria altri scrittori ed altre situazioni, anche se, e questo lo dico con una punta di orgoglio, la maniera, la sapienza e anche, perché no, lo scontro letterario, lo fanno assomigliare ad una grande della nostra letteratura: Fleur Jaeggy.
Di che parla La vita involontaria? Come ho già detto prima, è la storia di Paolo Pintus, un ragazzo di Oblenz che, per motivi di studio, si trasferisce in breve tempo a Vallona. Che così si presenta: Mia madre morì alla mia nascita. Mio padre in guerra quando avevo circa undici anni. Fui allevato da una zia che si dimostrò molto buona con me. Poi morì anche lei e, con l’incoraggiamento d’un amico assai colto e intelligente, venni a Vallona per studiare filosofia. Ma capivo che non era questa la mia strada. Una sera in cui ero un poco depresso incontrai il professor Millosz ed egli mi suggerì di passare alla facoltà di psicologia. Era quello che desideravo. Perciò mi trovo qui.
Sembra un trapasso volontario e senza troppe incertezze, in realtà cambia l’intera storia di Pintus. Lui così spaventato dalla vita… Non c’era dubbio ch’io fossi una delle prime vittime del saccheggio dell’irrazionale, delle mani di una ragazza sul mio corpo, per esempio, della calda oscurità dei sentimenti e della paura di vivere. Avrei dovuto fare l’impiegato di banca perché non ero neppure dotato di attitudini artistiche o sportive.
Eppure da questa situazione emerge un io trasformato, ma più ostile ed estraneo: Poi mi accadde un fatto curioso: tutto ciò che imparai dai professori e dai testi circa l’animo umano e i suoi complessi meccanismi, circa la malattia, le sue origini, gli infiniti sintomi, le infinite trasformazioni, tutto ciò mi sembrava che non riguardasse me, bensì gli altri.
Ecco dunque la rivoluzione: capire gli altri ma stendendo un velo “peccaminoso” su sé stesso.
Carafa costruisce un personaggio incerto, ma anche guerresco. Disposto a tutto pur di affermarsi a rischio di costruirsi una vita involontaria
L’edizione da noi considerata è:
Brianna Carafa
La vita involontaria
Einaudi
Su Brianna Carafa, la scrittrice de La vita involontaria, l’uomo in questione è addirittura Italo Calvino (tra l’altro, pensiamo, responsabile della candidatura del libro al premio Strega del 1976), il quale scrive: … tutto si dimostra calcolato per un vero sviluppo narrativo condotto con bravura nelle successive scoperte del protagonista, cui assistiamo di capitolo in capitolo con un “crescendo” in tutti i sensi. E’ un libro di qualità: qualità narrative perché certo “succede qualcosa” e qualità di scrittura, così chiara e ferma.
Non ci sembra, in queste poche righe, che Calvino dica niente di trascendentale, ma si è spinto a tal punto da rendere La vita involontaria un vero e proprio classico.
In realtà la Carafa aveva esordito con un libro di poesie edito nel 1957 da Carucci editore e sempre nel 1957 aveva pubblicato sulla rivista Botteghe Oscure due racconti: La porta di carta e Il sordo.
Poi un vero e proprio cambiamento con La vita involontaria (la Carafa pubblicherà anche un secondo romanzo, Il ponte nel deserto, che uscirà però nel 1978, anno della sua precocissima morte).
Cosa si può dire del romanzo che portiamo in corso? Personalmente ritengo che siano due gli aspetti fondamentali (anche se uno è particolarmente poco interpretativo). Il primo riguarda un appunto che feci, su queste righe, su un altro romanzo (questa volta di uno scrittore): perché mai un letterato dovrebbe fare un’opera su di un soggetto che credo sia difficile da comprendere? Spiego meglio: Brianna Carafa ha scritto un romanzo incentrato tutto su un giovane, Paolo Pintus. La domanda, la stessa di tempo fa, è la stessa: perché una donna dovrebbe imperniare una vicenda su un uomo? E non è forse vero, come avrebbe detto Busi, che solo l’aspetto interpretativo ed autobiografico permette allo scrittore di essere reale a tutti gli effetti?
L’altro aspetto del romanzo è la sua formazione mitteleuropea: si respira un’aria da fine ottocento, primi del novecento, che porta alla memoria altri scrittori ed altre situazioni, anche se, e questo lo dico con una punta di orgoglio, la maniera, la sapienza e anche, perché no, lo scontro letterario, lo fanno assomigliare ad una grande della nostra letteratura: Fleur Jaeggy.
Di che parla La vita involontaria? Come ho già detto prima, è la storia di Paolo Pintus, un ragazzo di Oblenz che, per motivi di studio, si trasferisce in breve tempo a Vallona. Che così si presenta: Mia madre morì alla mia nascita. Mio padre in guerra quando avevo circa undici anni. Fui allevato da una zia che si dimostrò molto buona con me. Poi morì anche lei e, con l’incoraggiamento d’un amico assai colto e intelligente, venni a Vallona per studiare filosofia. Ma capivo che non era questa la mia strada. Una sera in cui ero un poco depresso incontrai il professor Millosz ed egli mi suggerì di passare alla facoltà di psicologia. Era quello che desideravo. Perciò mi trovo qui.
Sembra un trapasso volontario e senza troppe incertezze, in realtà cambia l’intera storia di Pintus. Lui così spaventato dalla vita… Non c’era dubbio ch’io fossi una delle prime vittime del saccheggio dell’irrazionale, delle mani di una ragazza sul mio corpo, per esempio, della calda oscurità dei sentimenti e della paura di vivere. Avrei dovuto fare l’impiegato di banca perché non ero neppure dotato di attitudini artistiche o sportive.
Eppure da questa situazione emerge un io trasformato, ma più ostile ed estraneo: Poi mi accadde un fatto curioso: tutto ciò che imparai dai professori e dai testi circa l’animo umano e i suoi complessi meccanismi, circa la malattia, le sue origini, gli infiniti sintomi, le infinite trasformazioni, tutto ciò mi sembrava che non riguardasse me, bensì gli altri.
Ecco dunque la rivoluzione: capire gli altri ma stendendo un velo “peccaminoso” su sé stesso.
Carafa costruisce un personaggio incerto, ma anche guerresco. Disposto a tutto pur di affermarsi a rischio di costruirsi una vita involontaria
L’edizione da noi considerata è:
Brianna Carafa
La vita involontaria
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