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Il Paradiso degli Orchi
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Stefano Torossi

Avventura a lieto fine

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Art Forum Würth di Capena
Questo è il nome del castello fatato che ci ha catturato la fantasia da una pagina di giornale e che siamo andati sconsideratamente a cercare martedì 14 marzo.
Un’impresa. Ci siamo riusciti, ma che fatica.
Cominciamo dal principio.
C’era una volta Capena. Situata a qualche decina di chilometri a nord, fra la Via Salaria e la Tiberina, comincia la sua storia in epoca etrusca; naturalmente, subito dopo la conquista della vicina e più importante Veio, finisce anche lei fra le sgrinfie di Roma imperiale, e allora prospera; poi nel medioevo cade in miseria come tutti, passa in proprietà agli Orsini, ai Colonna, a confraternite e monasteri, e oggi è diventata una specie di sobborgo residenziale di Roma contemporanea. Come tutti i borghi alla destra della Salaria: Morlupo, Castelnuovo e altri, anche Capena, invece che su un cocuzzolo, sta infossata in fondo a forre di tufo umide e ombrose (il che d’estate potrà anche essere un piacere, ma d’inverno è una tristezza).
Su quel giornale avevamo letto di una meritoria iniziativa di Herr Würth, un industriale austriaco della ferramenta, che, in un’ala della sua fabbrica, appunto a Capena, ha aperto un museo di arte moderna visitabile tutti i giorni, gratis, da chiunque capiti da quelle parti.
Ecco la ragione della nostra dissennata iniziativa.
Bene, entriamo a Capena. Dopo aver interrogato inutilmente un paio di trogloditi locali “Ma che ne so io de ‘sto museo!”, “Ma ‘ndo sta?” ci dirigiamo alla Pro Loco per informazioni attendibili. Sprangata; e sono appena le undici del mattino.
Allora ripieghiamo su un’escursione nel paese. Il quale risulta essere una di quelle località molto caratteristiche dei dintorni. Anche troppo: trappole nelle quali attirare con i loro scorci pittoreschi i cittadini stanchi della cosiddetta frenetica vita metropolitana, che credono di risolvere i loro problemi esistenziali ritirandosi in una campagnola oasi di pace.
Eterna, a giudicare dall’aria mortuaria del borgo. Ci è venuto da preoccuparci che la soluzione ai problemi di coloro che abbandonano la città per venire qui sia, dopo neanche troppo tempo, un bel suicidio, forse simbolico, ma di sicuro non assistito.
Sottoportici misteriosi, mura cariche di secoli, vasi di fiori sui gradini di scale ripide che portano a casette apparentemente graziose: insomma tutto l’armamentario per risultare disneyanamente consolatorio contro le durezze della vita moderna.  
Consolatorio, non curativo; di questo siamo sicuri, anche per il deterioramento rapido, l’annebbiarsi delle funzioni cerebrali e l’infelicità da allontanamento sociale che leggiamo negli occhi di amici tuttora intrappolati in esperienze del genere.
Specialmente quelli vecchi. Proprio il momento della vita in cui è indispensabile una socializzazione intensa, il contatto con la tanto temuta nevrosi della città, che sarà faticosa, ma mantiene fresco e piccante il pepe della vita, e il non lasciarsi andare alla pigrizia, che sarà comoda ma fa spegnere prematuramente il vecchio rinunciatario come uno stoppino consumato.
Comunque, esaurita l’esplorazione, riusciamo finalmente, grazie a un paio di ragazzi con l’accento dell’est, più svegli degli indigeni, ad avere le indicazioni che cercavamo.
Abbandoniamo l’abitato, scendiamo a valle, sempre rimanendo nel comune di Capena (e questo giustifica il nome) ma parecchi chilometri più in basso; passiamo sotto l’autostrada e finalmente dal medioevo sbuchiamo nel 2017.
Una modernissima, grandissima fabbrica, roba da Silicon Valley, con prati verdissimi e curatissimi ed edifici bianchissimi, uno dei quali è effettivamente l’Art Forum Würth di Capena.
Un parcheggio spazioso e vuoto, una hostess gentile, pieghevoli e libri da consultare, totale assenza di altri visitatori; e via in giro per i saloni del museo. Che contiene, appunto, arte moderna e contemporanea, prevalentemente austriaca.
Non ci aspettavamo, e non ci sono, grandi capolavori. Sono presenti piuttosto quegli ibridi degli ultimi anni che stanno in bilico fra arte e gioco e che riempiono le biennali per poi scomparire.
Dove? Evidentemente in piccoli musei amatoriali come questo. Niente di male. Ci siamo divertiti a seguire la colatura di vernice rossa dal barattolo e a provare a dare una taglia alle scarpone di bronzo.
Ci è piaciuta soprattutto l’atmosfera leggera, fresca, senza quel muschio secolare, quelle muffe millennarie, quella decrepitezza storica che impregna il paese vecchio.
Due begli stanzoni bianchi; qualcosa di divertente da esplorare per ritrovarci vicini, anzi dentro la civiltà, quella del confort e della cultura internazionale.
E poi a casa, naturalmente in città.



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