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Il Paradiso degli Orchi
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Stefano Torossi

Coronavirus - fine fase uno

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Ore 6, il sole comincia a fare capolino, una coppia di enormi gabbiani si mette a battere col becco sui vetri della finestra e ci sveglia. Abbiamo trascorso l’infanzia in campagna e non è facile che un animale ci spaventi, ma quei due uccellacci con l’occhio allucinato e il becco grifagno fanno paura. Il primo pensiero è Hitchcock; il secondo: aiuto! la natura ha ripreso il controllo della città. Poi un caffè ci schiarisce il cervello, ci accertiamo di non essere stati divorati e decidiamo di andare a farci una passeggiata.
Sappiamo che la tregua mortifera sta per finire e che bisogna approfittarne perché un’occasione così: la città umana vuota e noi soli ad assistere al suo irreale coma, quando ci si ripresenta? Quello che vogliamo vivere ancora per un po’ è Roma senza i romani.

E così ci avviamo. Destinazione il quartiere umbertino intorno alla Stazione. Poi vi diremo perché. Intanto, siccome è di strada, passiamo a salutare il Panteon. Caspita! È la prima volta che lo troviamo sbarrato di giorno. Ma non è morto: da quella fessura illuminata in basso fra i battenti capiamo che il famoso puntamento del sole attraverso l’occhio della cupola continua, anche se noi abbiamo chiuso baracca. Il 21 aprile, Natale di Roma il proiettore solare centra perfettamente il portone, ma per parecchi giorni prima e dopo continua a illuminare di sbieco l’ingresso del tempio.
In piazza ci siamo solo noi e un ometto che di solito dorme sotto il colonnato e ora pranza leggendo qualcosa appoggiato al muretto sulla sinistra. Non ha la mascherina, naturalmente, e neanche i guanti ma pare che ai poliziotti di guardia non interessi un gran che.
È una cosa che abbiamo notato anche nei momenti di maggior rigore della crisi sanitaria: il barbone (o chiunque fuori dagli schemi) non è tenuto alle regole, e allora nessuno gli dice niente.
Eccoci a destinazione, in quella brutta scacchiera costruita dai piemontesi dopo Porta Pia (per intenderci: Stazione Termini, Piazza Vittorio, Piazza Dante e strade parallele e ortogonali), che eccezionalmente oggi è piena di cinguettii e brezze leggere e niente traffico puzzolente. Siamo lì perché  abbiamo appena finito di leggere un libro, che vi consigliamo “Il papa e l’architetto” di Roberto Dragosei, che ci ha spinti (e mai troveremo momento migliore per questa visita) a girare da queste parti. Il papa è Sisto V, l’architetto Domenico Fontana e l’epoca fine ‘500. Sisto (Felice Peretti, Cardinal Montalto) ha messo insieme con acquisti pazienti quella che, una volta sistemata, appunto da Domenico, si chiamerà Villa Montalto. E non è neanche lontana: a quel tempo la città era talmente piccola da lasciare entro le mura Aureliane abbastanza spazio per parchi e ville, diventate una meravigliosa cintura verde intorno al minuscolo abitato, limitato al Tridente, Trastevere e Vaticano. E la villa di Sisto è la più bella di tutte.
Poi, dopo tre secoli, Roma diventa capitale, agli eredi dei nobili che avevano costruito quelle meraviglie viene un improvviso formidabile appetito e tutto è venduto e distrutto. È un dolore forte. Pensare che se ci fosse stato qualcuno capace e onesto, almeno una parte di questo unico patrimonio si sarebbe potuta salvare. Invece niente: giù gli alberi (che erano diventati patriarchi centenari), e su i condomini, uno più brutto dell’altro.
Ecco una testimonianza su cui possiamo piangere insieme. E’ la pianta di Roma di G. B. Nolli, 1748. Villa Montalto è un trapezio con in alto le Terme di Diocleziano e in basso a sinistra S. Maria Maggiore. Lo stradone che dal centro punta verso l’angolo in basso a destra diventerà via Marsala, metà villa sarà invasa da binari e Stazione; e il resto si chiamerà via del Viminale, via Giolitti, Turati, Principe  Amedeo… Un disastro irrecuperabile.



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