RECENSIONI
Fabio Geda
L'estate alla fine del secolo
Dalai editore, Pag. 285 Euro 17,50
In genere me ne strafrego dei 'colleghi', a meno che non siano amici, ma a volte capita di leggiucchiare qua e là, soprattutto in quegli inserti sbandierati dai media come fonti inestimabili di informazioni che altrimenti l'uomo sarebbe di nuovo Neanderthal, e ricavare suggestioni.
Quelle che ho ricavato dalla lettura della recensione del libro di Geda, su 'Lettura' l'inserto settimanale del Corriere della Sera, a firma Daniele Giglioli, mi hanno infastidito.
Scrive il su indicato a proposito dei procedimenti per preparare un prodotto narrativo di successo e, nello specifico, quelli usati dal Gedda per 'costruire' il suo libro: la Malattia (ottimo il cancro, meglio ancora la leucemia, che a torto o a ragione suona meno iettatoria), o la Shoah, che si porta in tutte le stagioni. Indi occorre amalgamare il tutto con qualche archetipo dell'inconscio collettivo, tipo Il Vecchio E il Bambino (per la gioia di Jung e di Francesco Guccini).
Stronzate.
Innanzi tutto qualcuno mi deve spiegare, nel 2011, come sia possibile 'inventarsi' qualcosa e non ricadere nel già detto o nel già scritto. Siccome credo fermamente che non ci sia nessuno che abbia la presunzione di farlo, la questione diventa un'altra: in che modo si può scrivere una storia che non risulti banale e trita nonostante possa assomigliare a qualcos'altro? Ovvio: prestando attenzione allo stile.
Lo stile di Geda è suggestivo, non ci sono cazzi (e scusate il fraseggio – o cazzeggio – tipicamente anglosassone): nonostante parli di affinità elettive e di relazioni pericolose, lo fa con garbo, con evidente mestiere (riconosciuto dal suo stesso detrattore) e sa regalare anche emozioni sincere e non troppo 'costruite'.
Il resto sono ciance. La storia dei due ragazzini, in piani temporali diversi (perché poi son nonno e nipote), a volte prende alla pancia: non importa che utilizzi il luogo comune della sofferenza (malattia, cancro e Shoah), l'importante è il tocco, la mano e la caratterizzazione – in questo caso riuscita – dei personaggi.
Curiosi questi 'critici': s'innamorano dell'inumano (tanto per dire: Pacchiano che straparla di Faletti, ritenendolo un grande scrittore, e D'Orrico che sponsorizza la letteratura commerciale) e poi si fanno prendere dalle isterie censorie contro chi, onestamente, fa il proprio dovere (mestiere? Passi pure quello!).
Personalmente posso dire: tranquilli. L'estate alla fine del secolo è un gran bel libro e soprattutto una lettura coinvolgente.
di Alfredo Ronci
Quelle che ho ricavato dalla lettura della recensione del libro di Geda, su 'Lettura' l'inserto settimanale del Corriere della Sera, a firma Daniele Giglioli, mi hanno infastidito.
Scrive il su indicato a proposito dei procedimenti per preparare un prodotto narrativo di successo e, nello specifico, quelli usati dal Gedda per 'costruire' il suo libro: la Malattia (ottimo il cancro, meglio ancora la leucemia, che a torto o a ragione suona meno iettatoria), o la Shoah, che si porta in tutte le stagioni. Indi occorre amalgamare il tutto con qualche archetipo dell'inconscio collettivo, tipo Il Vecchio E il Bambino (per la gioia di Jung e di Francesco Guccini).
Stronzate.
Innanzi tutto qualcuno mi deve spiegare, nel 2011, come sia possibile 'inventarsi' qualcosa e non ricadere nel già detto o nel già scritto. Siccome credo fermamente che non ci sia nessuno che abbia la presunzione di farlo, la questione diventa un'altra: in che modo si può scrivere una storia che non risulti banale e trita nonostante possa assomigliare a qualcos'altro? Ovvio: prestando attenzione allo stile.
Lo stile di Geda è suggestivo, non ci sono cazzi (e scusate il fraseggio – o cazzeggio – tipicamente anglosassone): nonostante parli di affinità elettive e di relazioni pericolose, lo fa con garbo, con evidente mestiere (riconosciuto dal suo stesso detrattore) e sa regalare anche emozioni sincere e non troppo 'costruite'.
Il resto sono ciance. La storia dei due ragazzini, in piani temporali diversi (perché poi son nonno e nipote), a volte prende alla pancia: non importa che utilizzi il luogo comune della sofferenza (malattia, cancro e Shoah), l'importante è il tocco, la mano e la caratterizzazione – in questo caso riuscita – dei personaggi.
Curiosi questi 'critici': s'innamorano dell'inumano (tanto per dire: Pacchiano che straparla di Faletti, ritenendolo un grande scrittore, e D'Orrico che sponsorizza la letteratura commerciale) e poi si fanno prendere dalle isterie censorie contro chi, onestamente, fa il proprio dovere (mestiere? Passi pure quello!).
Personalmente posso dire: tranquilli. L'estate alla fine del secolo è un gran bel libro e soprattutto una lettura coinvolgente.
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