RECENSIONI
Massimo Bontempelli
La vita intensa
ISBN edizioni, Pag. 212 Euro 11,00
				Nel corso del secolo scorso, in Italia, si è avuta spesso la frenesia di cambiar registro: meno che in politica. Perché se la guerra ha spazzato via un fascismo radicato, nulla abbiamo potuto contro il cinquantennio democristiano e l'ormai ventennio berlusconiano che ne è la deriva destrorsa.
In letteratura le prurigini ci sono sempre state, per fortuna, anche se poi, come spesso accade in questo paese, chi propugna rivoluzioni poi finisce col tempo nel calderone del becero populismo reazionario (lo diceva Vita Finzi, non certo in odor di parodia).
Pensiamo quando Antonio Pizzuto scosse il romanzo nostrano addormentato nell'alveo del neorealismo invadente ed onnicomprensivo: Signorina Rosina fu un colpo ben assestato all'impalcatura dell'indigeno narrar. Poi arrivò il Gruppo 63 ad 'invalidare' anche autori per fortuna, per noi, diventati nonostante tutto classici. E come dice giustamente Labranca su siffatte eminenze grigie: Certi antichi signori che si erano sentiti messi da parte da quanto succedeva negli anni Novanta oggi difendono alcuni poveri mentecatti, fuoricorso di lettere, che scrivono narrativa d'inchiesta. Trovo che tutto ciò sia molto divertente.
A 'complottare' contro il romanzo nei primi anni del passato secolo ci si mise, con intenzioni audaci e baldanzose – ed erano davvero anni audaci – Massimo Bontempelli e La vita intensa arrivò come una mazzata sui piedi.
Dieci capitoletti (ognuno fatto passare per romanzo) dall'impatto esplosivo, dove si faceva macerie delle strutture narrative dell'epoca, anticipando temi e rodimenti di chiccherone. Scopo finale: rinnovare il romanzo (E allora per chi e perché scrivo questo romanzo? Lo scrivo per i posteri. Lo scrivo per rinnovare il romanzo europeo). E fare carne da macello del passato: contro Zola, contro Balzac, contro il dannunzianesimo, contro la deriva sentimental-polpettistica alla Invernizio, contro il memorialismo, contro il Bildungsroman, contro le ritualità sciamaniche del futurismo, contro la letteratura dell'assurdo, contro lo snobismo wagneriano.
Un romanzo, La vita intensa, che per contrasto, intensa proprio non è: a cominciare dal primo capitolo (o primo romanzo, secondo le indicazioni del Bontempelli) in cui la narrazione comprende tutte le avventure che mi sono accorse una mattina tra le 12 e le 12,30 andando da via San Paolo alla Galleria (...) eppure questa è una storia vera. E io non la scrivo per quegli uomini troppo semplici.
Infatti è luogo comune (o puzza sotto al naso) dire che le 'rivoluzioni' o gli scossoni audaci non riguardano il comune volgo? Perché Bontempelli fece tabula rasa delle convenzioni letterarie (persino contro il 'giallo' si scagliò – e pensiamo cosa direbbe oggi sommersi come siamo dalla mota montante del noir – nel capitoletto terzo dove una donna chiede di investigare sui presunti tradimenti del marito) e propugnò l'idea del dettaglio come carta vincente, ma non specchio di una mediocrità vista con occhi spenti se non morti: Oggi siamo delicati, e nel gran calderone della nostra produzione letteraria s'è fatto un po' di posto anche un certo lavapiattismo bolscevoide, cui cedo gratis, se gli piace, quel mio vecchio titolo, sintesi spontanea d'una vita mediocre della quale non sapevo ancora disperarmi abbastanza per trovarle una soluzione e un'uscita.
Bontempelli s'allontanò con quest'operazione da tutto, scrollandosi di dosso pure un'etichetta ch'era facile affibbiargli: dell'intellettuale di potere, quindi, considerando l'epoca, fascista. Fece di più, abiurò, definendo il 'processo' iniziato nel '22 come una trasformazione, dall'estremo di cultura a una specie di coltivata barbarie, dal vanitoso individualismo a una smania di obbedienza militaresca, dalla pace creduta inalterabile alla guerra sempre pronta.
Mi chiedo: ma quando si studia letteratura alle superiori in questa cazzo di scuola italiana, perché Bontempelli è a malapena – e quando ci si arriva al novecento – sfiorato?
di Alfredo Ronci
		
	In letteratura le prurigini ci sono sempre state, per fortuna, anche se poi, come spesso accade in questo paese, chi propugna rivoluzioni poi finisce col tempo nel calderone del becero populismo reazionario (lo diceva Vita Finzi, non certo in odor di parodia).
Pensiamo quando Antonio Pizzuto scosse il romanzo nostrano addormentato nell'alveo del neorealismo invadente ed onnicomprensivo: Signorina Rosina fu un colpo ben assestato all'impalcatura dell'indigeno narrar. Poi arrivò il Gruppo 63 ad 'invalidare' anche autori per fortuna, per noi, diventati nonostante tutto classici. E come dice giustamente Labranca su siffatte eminenze grigie: Certi antichi signori che si erano sentiti messi da parte da quanto succedeva negli anni Novanta oggi difendono alcuni poveri mentecatti, fuoricorso di lettere, che scrivono narrativa d'inchiesta. Trovo che tutto ciò sia molto divertente.
A 'complottare' contro il romanzo nei primi anni del passato secolo ci si mise, con intenzioni audaci e baldanzose – ed erano davvero anni audaci – Massimo Bontempelli e La vita intensa arrivò come una mazzata sui piedi.
Dieci capitoletti (ognuno fatto passare per romanzo) dall'impatto esplosivo, dove si faceva macerie delle strutture narrative dell'epoca, anticipando temi e rodimenti di chiccherone. Scopo finale: rinnovare il romanzo (E allora per chi e perché scrivo questo romanzo? Lo scrivo per i posteri. Lo scrivo per rinnovare il romanzo europeo). E fare carne da macello del passato: contro Zola, contro Balzac, contro il dannunzianesimo, contro la deriva sentimental-polpettistica alla Invernizio, contro il memorialismo, contro il Bildungsroman, contro le ritualità sciamaniche del futurismo, contro la letteratura dell'assurdo, contro lo snobismo wagneriano.
Un romanzo, La vita intensa, che per contrasto, intensa proprio non è: a cominciare dal primo capitolo (o primo romanzo, secondo le indicazioni del Bontempelli) in cui la narrazione comprende tutte le avventure che mi sono accorse una mattina tra le 12 e le 12,30 andando da via San Paolo alla Galleria (...) eppure questa è una storia vera. E io non la scrivo per quegli uomini troppo semplici.
Infatti è luogo comune (o puzza sotto al naso) dire che le 'rivoluzioni' o gli scossoni audaci non riguardano il comune volgo? Perché Bontempelli fece tabula rasa delle convenzioni letterarie (persino contro il 'giallo' si scagliò – e pensiamo cosa direbbe oggi sommersi come siamo dalla mota montante del noir – nel capitoletto terzo dove una donna chiede di investigare sui presunti tradimenti del marito) e propugnò l'idea del dettaglio come carta vincente, ma non specchio di una mediocrità vista con occhi spenti se non morti: Oggi siamo delicati, e nel gran calderone della nostra produzione letteraria s'è fatto un po' di posto anche un certo lavapiattismo bolscevoide, cui cedo gratis, se gli piace, quel mio vecchio titolo, sintesi spontanea d'una vita mediocre della quale non sapevo ancora disperarmi abbastanza per trovarle una soluzione e un'uscita.
Bontempelli s'allontanò con quest'operazione da tutto, scrollandosi di dosso pure un'etichetta ch'era facile affibbiargli: dell'intellettuale di potere, quindi, considerando l'epoca, fascista. Fece di più, abiurò, definendo il 'processo' iniziato nel '22 come una trasformazione, dall'estremo di cultura a una specie di coltivata barbarie, dal vanitoso individualismo a una smania di obbedienza militaresca, dalla pace creduta inalterabile alla guerra sempre pronta.
Mi chiedo: ma quando si studia letteratura alle superiori in questa cazzo di scuola italiana, perché Bontempelli è a malapena – e quando ci si arriva al novecento – sfiorato?
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