RECENSIONI
Donald Ray Pollock
Le strade del male
Elliot, Pag. 256 Euro 16,50
Io non so se esiste un'America come quella raccontata ne Le strade del male, primo romanzo di Donald Ray Pollock. Qualcosa che le assomigli è probabile, ma è evidente quanto all'anomalo scrittore di Knockemstiff, Ohio (una vita da operaio, esordio tardivo in seguito a un corso universitario frequentato per farsi ridurre l'orario di lavoro) piaccia insistere sul pedale di una violenza assieme truce e grottesca, nonché sul ritratto di personaggi dalla follia faulkneriana, impastati come sembrano in una materia biologica, in una grammatica minima, talmente primitiva da rasentare l'assurdo. E nello stesso tempo capaci di ordire trame, vendette, regolamenti di conti brutali non meno che diabolici.
La matrice geografica delle storie cavate via dalla sulfurea immaginazione di Ray Pollock è quella 'Knockemstiff' che dava il titolo al suo primo libro, una raccolta di racconti, pubblicata in Italia come questo romanzo da Elliot (editore romano che ha tradotto ottimi libri in questi anni, un po' meno felice nella scelta degli italiani). Di lì, da quel caseggiato arcaico proviene anche il primo protagonista del romanzo, un reduce di guerra, un figuro terribile, sinistro, ma niente affatto privo di un suo senso dell'etica. Non come codice d'onore parallelo a quello della legge, com'è dell'immaginario mafioso. Lui prende il suo "Signore" alla lettera caso mai, con qualche drammatico momento di frizione, bisogna dire. In guerra ha visto l'osceno nella sua forma meno tollerabile, un marine scuoiato vivo dai giapponesi e inchiodato in agonia su una croce. Da quel momento la sua vita è cambiata. E' cambiato lui. Benché truculento, incline a scivolare facilmente in una violenza torbida (ne sa qualcosa il figlio che si becca ceffoni e calci in culo senza motivo), letterariamente aspira a una qualche perversa forma di grandezza tragica. Gli è che gioca tutto su un piano di passioni e di regole primitive, narrativamente espresse con ipermimetica crudezza. Ray Pollock sa raccontare, è indubbio, ha quella capacità tipica di tanta grande letteratura americana di rendere plastica la pagina, secondo la lezione di Flannery O' Connor: far rivivere la materia, far emergere carne, sangue, corpi e gesti della "realtà". Questa vita elementare che Willard pensava di poter tenere dentro binari accettabili grazie all'adorata moglie salta del tutto con la morte di lei. Nemmeno lui ce la fa, e col suo suicidio la scena è presa dal figlio Arvin. Che tutto quello che conosce della vita è la violenza esibita dal padre a più riprese e l'accanimento religioso che non ha portato a nulla (nelle preghiere che avrebbero dovuto salvare la moglie non si era fatto mancare il sacrificio di animali, umani che gli stavano sulle palle compresi). Inizia un'altra storia, a quel punto. Con il poco che sa, Arvin dovrà affrontare balordi d'ogni risma, alcolizzati, killer, predicatori figli di puttana, gente assai fuori di testa insomma. Notevole la capacità dell'autore di raccontare e descrivere sempre tenendo viva l'azione, la scena. Certo, se queste strade americane fossero così estese non ci sarebbe più molto da sperare - per nessuno.
di Michele Lupo
La matrice geografica delle storie cavate via dalla sulfurea immaginazione di Ray Pollock è quella 'Knockemstiff' che dava il titolo al suo primo libro, una raccolta di racconti, pubblicata in Italia come questo romanzo da Elliot (editore romano che ha tradotto ottimi libri in questi anni, un po' meno felice nella scelta degli italiani). Di lì, da quel caseggiato arcaico proviene anche il primo protagonista del romanzo, un reduce di guerra, un figuro terribile, sinistro, ma niente affatto privo di un suo senso dell'etica. Non come codice d'onore parallelo a quello della legge, com'è dell'immaginario mafioso. Lui prende il suo "Signore" alla lettera caso mai, con qualche drammatico momento di frizione, bisogna dire. In guerra ha visto l'osceno nella sua forma meno tollerabile, un marine scuoiato vivo dai giapponesi e inchiodato in agonia su una croce. Da quel momento la sua vita è cambiata. E' cambiato lui. Benché truculento, incline a scivolare facilmente in una violenza torbida (ne sa qualcosa il figlio che si becca ceffoni e calci in culo senza motivo), letterariamente aspira a una qualche perversa forma di grandezza tragica. Gli è che gioca tutto su un piano di passioni e di regole primitive, narrativamente espresse con ipermimetica crudezza. Ray Pollock sa raccontare, è indubbio, ha quella capacità tipica di tanta grande letteratura americana di rendere plastica la pagina, secondo la lezione di Flannery O' Connor: far rivivere la materia, far emergere carne, sangue, corpi e gesti della "realtà". Questa vita elementare che Willard pensava di poter tenere dentro binari accettabili grazie all'adorata moglie salta del tutto con la morte di lei. Nemmeno lui ce la fa, e col suo suicidio la scena è presa dal figlio Arvin. Che tutto quello che conosce della vita è la violenza esibita dal padre a più riprese e l'accanimento religioso che non ha portato a nulla (nelle preghiere che avrebbero dovuto salvare la moglie non si era fatto mancare il sacrificio di animali, umani che gli stavano sulle palle compresi). Inizia un'altra storia, a quel punto. Con il poco che sa, Arvin dovrà affrontare balordi d'ogni risma, alcolizzati, killer, predicatori figli di puttana, gente assai fuori di testa insomma. Notevole la capacità dell'autore di raccontare e descrivere sempre tenendo viva l'azione, la scena. Certo, se queste strade americane fossero così estese non ci sarebbe più molto da sperare - per nessuno.
di Michele Lupo
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