RECENSIONI
Felix Fénéon
Romanzi in tre righe
Adelphi, Biblioteca Minima , Pag. 58 Euro 5,50
È probabile che la maniera più corretta di parlare di questo libricino sia facendo ricorso a un vocabolario nosocomico. Sarebbe, da parte di chi stende queste note, una resa, forse utile al proprio quieto vivere, davanti agli usi e miti del pensare moderno (perché anche non pensare, va detto, è un atto del pensiero).
Con un scarso giro di frasi, si potrebbe dire che la forza di questo moderno pensiero sta nel risolvere tutto in malattia. La polemica diventa un proditorio atto di incontrollata violenza; il ragionamento un pedante disturbo glossolalico; e via dicendo.
In letteratura, per la precisione, si dà che, non potendo definire cosa sia il bello (che in effetti è più facile sentire che catalogare), ci si deve ridurre, sotto questo riguardo, all'afasia. Per esempio uno scrittore nello scrivere si dovrebbe peritare di non raggiungerlo, e sarebbe consigliabile a un editore non pubblicare fogli che ne contengano.
Ultimamente qualcuno è stato chirurgicamente chiaro su questo punto, cogliendo l'occasione, durante una commemorazione della figura di Giulio Einaudi, per ricordare che questi era editore con un grosso progetto culturale in mente, il che, svela l'esegeta, è indice di megalomania. Da qui si può fare anche derivare che tutti gli scrittori (fra i più importanti della letteratura europea del secondo dopoguerra) che seguirono le direttive di questo progetto altro non potevano essere che un gruppo affetto da diverse tare psichiche.
Con un passo agile si è sorpassata così l'attardata distinzione fra arte degenere e arte che degenere non è, per dire chiaramente che ogni espressione di cultura è malata e condannabile. E già questo ragionamento potrebbe permetterci di penetrare nei misteri di una crisi, quella che viviamo tutti quanti nel quotidiano, che si nutre della mancanza di grandi storie e di amore per il pensiero, a favore del minuscolo, del frammentato, del diario, della cronaca e dell'espressione di ciò che entro mi rugge (non so se nel testo si percepisce il rutto).
In questo senso I romanzi in tre righe di Fénéon sono del tutto malati e degeneri, dal momento che colpiscono nel cuore questo minuscolo, questo frammentato. Pubblicati anonimi su le Matin, e ritrovati solo dopo la scomparsa dello scrittore ed editore francese, questi romanzi composti di tre solo righe, a prima vista, non si distinguono perfettamente dalle brevissime degli altri giornali, piccole cronache del quotidiano in cui si dava voce a fatti indegni di nota, la cui fonte poteva essere del tutto distratta e che potevano essere lette senza impegno in poco tempo: parliamo, insomma, della premessa, nello specifico del giornalismo contemporaneo, e, più in generale, del pensiero moderno. Ma Fénéon organizzava questo materiale dentro una struttura narrativa blindata (la prima riga per l'ambiente, la seconda per il fatto, la terza per il finale) e lo rivivificava in una lingua lucida e allucinata dove giocava l'imprevisto di una parola o di un aggettivo straniati, o collocati in maniera inaspettata. Insomma dava una sostanza patetica ed epica a storie che nascevano prive di tutto, e le caricava di una tensione pronta ad esplodere nell'ultima riga, quella fatale, quella in cui chiuso il fattarello insignificante, la bambina che cade dal treno, la madre che uccide il figlio, l'attentato anarchico, il furtarello, il giocatore di bocce che si perde o il bambino smarrito, partiva la grande storia.
Nell'ultima riga il bambino scoppia in un enorme pianto e scatta la fantasia alla ricerca di tutti i motivi, di tutte le storie possibili che nascono o si concludono in questa disperazione; la vittima viene ritrovata sì morta, ma con centinaia di santini addosso: perché?; il giocatore di bocce cade, ma, nel finale il pallino prosegue la corsa (un modo tutto greco di dire cosa siamo, e di ricondurci al 'conosci te stesso'); caduta dal treno, la bambina viene ritrovata a giocare coi sassi: e stiamo in un sogno.
Fénéon, direttore della Revue Blanche, inventore dell'impressionismo, agitatore anarchico (sicuro realizzatore di un attentato dinamitardo), dunque, potrebbe essere qui preso come campione possibile di un'altra modernità, o essere assunto a causa del suo silente progetto culturale, delle sue dinamitarde intenzioni, come un violento maniaco megalomane.
Lui, a qualsiasi microscopizzante definizione, saprebbe trovare una chiosa del tutto inattesa.
di Pier Paolo Di Mino
Con un scarso giro di frasi, si potrebbe dire che la forza di questo moderno pensiero sta nel risolvere tutto in malattia. La polemica diventa un proditorio atto di incontrollata violenza; il ragionamento un pedante disturbo glossolalico; e via dicendo.
In letteratura, per la precisione, si dà che, non potendo definire cosa sia il bello (che in effetti è più facile sentire che catalogare), ci si deve ridurre, sotto questo riguardo, all'afasia. Per esempio uno scrittore nello scrivere si dovrebbe peritare di non raggiungerlo, e sarebbe consigliabile a un editore non pubblicare fogli che ne contengano.
Ultimamente qualcuno è stato chirurgicamente chiaro su questo punto, cogliendo l'occasione, durante una commemorazione della figura di Giulio Einaudi, per ricordare che questi era editore con un grosso progetto culturale in mente, il che, svela l'esegeta, è indice di megalomania. Da qui si può fare anche derivare che tutti gli scrittori (fra i più importanti della letteratura europea del secondo dopoguerra) che seguirono le direttive di questo progetto altro non potevano essere che un gruppo affetto da diverse tare psichiche.
Con un passo agile si è sorpassata così l'attardata distinzione fra arte degenere e arte che degenere non è, per dire chiaramente che ogni espressione di cultura è malata e condannabile. E già questo ragionamento potrebbe permetterci di penetrare nei misteri di una crisi, quella che viviamo tutti quanti nel quotidiano, che si nutre della mancanza di grandi storie e di amore per il pensiero, a favore del minuscolo, del frammentato, del diario, della cronaca e dell'espressione di ciò che entro mi rugge (non so se nel testo si percepisce il rutto).
In questo senso I romanzi in tre righe di Fénéon sono del tutto malati e degeneri, dal momento che colpiscono nel cuore questo minuscolo, questo frammentato. Pubblicati anonimi su le Matin, e ritrovati solo dopo la scomparsa dello scrittore ed editore francese, questi romanzi composti di tre solo righe, a prima vista, non si distinguono perfettamente dalle brevissime degli altri giornali, piccole cronache del quotidiano in cui si dava voce a fatti indegni di nota, la cui fonte poteva essere del tutto distratta e che potevano essere lette senza impegno in poco tempo: parliamo, insomma, della premessa, nello specifico del giornalismo contemporaneo, e, più in generale, del pensiero moderno. Ma Fénéon organizzava questo materiale dentro una struttura narrativa blindata (la prima riga per l'ambiente, la seconda per il fatto, la terza per il finale) e lo rivivificava in una lingua lucida e allucinata dove giocava l'imprevisto di una parola o di un aggettivo straniati, o collocati in maniera inaspettata. Insomma dava una sostanza patetica ed epica a storie che nascevano prive di tutto, e le caricava di una tensione pronta ad esplodere nell'ultima riga, quella fatale, quella in cui chiuso il fattarello insignificante, la bambina che cade dal treno, la madre che uccide il figlio, l'attentato anarchico, il furtarello, il giocatore di bocce che si perde o il bambino smarrito, partiva la grande storia.
Nell'ultima riga il bambino scoppia in un enorme pianto e scatta la fantasia alla ricerca di tutti i motivi, di tutte le storie possibili che nascono o si concludono in questa disperazione; la vittima viene ritrovata sì morta, ma con centinaia di santini addosso: perché?; il giocatore di bocce cade, ma, nel finale il pallino prosegue la corsa (un modo tutto greco di dire cosa siamo, e di ricondurci al 'conosci te stesso'); caduta dal treno, la bambina viene ritrovata a giocare coi sassi: e stiamo in un sogno.
Fénéon, direttore della Revue Blanche, inventore dell'impressionismo, agitatore anarchico (sicuro realizzatore di un attentato dinamitardo), dunque, potrebbe essere qui preso come campione possibile di un'altra modernità, o essere assunto a causa del suo silente progetto culturale, delle sue dinamitarde intenzioni, come un violento maniaco megalomane.
Lui, a qualsiasi microscopizzante definizione, saprebbe trovare una chiosa del tutto inattesa.
di Pier Paolo Di Mino
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