RECENSIONI
Angelo Calvisi
Un mucchio di giorni così
Quarup, Pag. 122 Euro 12,90
Facciamo due esempi.
Il primo: Claudio s'era diplomato brillantemente sfruttando anche la sua conoscenza di Proust e le sue ossessioni. Quando presentò una tesina al membro interno sull'importanza delle capacità olfattive nella letteratura, dei vini autoctoni e in più disquisendo di madeleines o su quant'è bbuono lu babbà, la professoressa aveva sorriso e aveva sbattuto le ciglia lucidissime perché trattate col mascara all'olio di ricino. Claudio aveva alzato una mano, aveva pronunciato, sibilando, prosit, perché sapeva che era parola latina il cui infinito era prodesse , cioè essere in vantaggio, e dall'alto della sua sicurezza intuì che la donna tettuta davanti era ben disposta. Vai a sapere per cosa: ma non escludendo nulla. Nemmeno un rendez-vous pregustando un sushi in ambiente esclusivamente nippo-pop.
Il secondo: Claudio s'era diplomato a fatica e aveva dovuto anche rinunciare ad un paio di weekend al mare, per studiare e completare il programma. La donnona davanti a lui, coi ciglioni e le labbrone da nera, masticando un chewingum, tentava di suggerirgli la risposta ad una domanda facile sul pessimismo leopardiano. Piegò la testa su se stesso, solo dopo aver gettato uno sguardo tosto alle bocce della prof, e sussurrando disse: non mi faccia del male, ma studiare Leopardi mi deprime, non è che ha una domanda di riserva e un poeta meno afflitto?
I due esempi (farina del mio sacco, non citazioni) potrebbero costituire un confronto: in realtà non c'è. E vediamo il perché: il primo si porta dietro la ferraglia delle esperienze scolastiche e la convinzione che da quella si manifesti il talento dello scrittore. Il secondo crede la stessa cosa, ma non ammorba il lettore con la presunzione dell'alfabetizzazione fica. Ma ambedue sono modelli standard ipercontestualizzabili.
La nostra letteratura indigena questo fa: dal cappello della scolarizzazione estrae il coniglio del proprio presunto talento, in questo caso narrativo, ignorando che è proprio quest'ultimo ad indicare la strada, qualunque essa sia, e non viceversa. Nonostante l'errore dei più, in alcuni casi si crea consenso (leggi: successo), ma è tristemente conforme.
Mi sono apprestato a leggere Calvisi temendo di trovarmi di fronte all'ennesimo ingegnere della letteratura, che appena laureato mette in pratica i principi della sua educazione. Calvisi è educato, ma non spocchioso e per fortuna rinuncia ai proclami e agli stucchevoli sollazzi di una presunta superiorità intellettiva. Il suo stile è piano e non banale, e sia se parli di un padre 'perso' e di una sorella 'ritrovata' ('Credevo che fossi diverso'), sia se immagini un ragazzo che vuole uccidere l'amante della sua ragazza ('1995 - crisi glicemica'), sia se accenni appena al ferale G8 di Genova ('2001 – non voglio più servir'), sia che tratti di malattia ('La fimmina d'arremi', racconto veramente ben riuscito e commovente) , lo fa con la consapevolezza di voler essere compagno della propria creatura letteraria, non traditore. La letteratura di oggi tradisce le intenzioni ed è falsa. Quella di Calvisi non sarà esplosiva o geniale, ma almeno è onesta.
di Alfredo Ronci
Il primo: Claudio s'era diplomato brillantemente sfruttando anche la sua conoscenza di Proust e le sue ossessioni. Quando presentò una tesina al membro interno sull'importanza delle capacità olfattive nella letteratura, dei vini autoctoni e in più disquisendo di madeleines o su quant'è bbuono lu babbà, la professoressa aveva sorriso e aveva sbattuto le ciglia lucidissime perché trattate col mascara all'olio di ricino. Claudio aveva alzato una mano, aveva pronunciato, sibilando, prosit, perché sapeva che era parola latina il cui infinito era prodesse , cioè essere in vantaggio, e dall'alto della sua sicurezza intuì che la donna tettuta davanti era ben disposta. Vai a sapere per cosa: ma non escludendo nulla. Nemmeno un rendez-vous pregustando un sushi in ambiente esclusivamente nippo-pop.
Il secondo: Claudio s'era diplomato a fatica e aveva dovuto anche rinunciare ad un paio di weekend al mare, per studiare e completare il programma. La donnona davanti a lui, coi ciglioni e le labbrone da nera, masticando un chewingum, tentava di suggerirgli la risposta ad una domanda facile sul pessimismo leopardiano. Piegò la testa su se stesso, solo dopo aver gettato uno sguardo tosto alle bocce della prof, e sussurrando disse: non mi faccia del male, ma studiare Leopardi mi deprime, non è che ha una domanda di riserva e un poeta meno afflitto?
I due esempi (farina del mio sacco, non citazioni) potrebbero costituire un confronto: in realtà non c'è. E vediamo il perché: il primo si porta dietro la ferraglia delle esperienze scolastiche e la convinzione che da quella si manifesti il talento dello scrittore. Il secondo crede la stessa cosa, ma non ammorba il lettore con la presunzione dell'alfabetizzazione fica. Ma ambedue sono modelli standard ipercontestualizzabili.
La nostra letteratura indigena questo fa: dal cappello della scolarizzazione estrae il coniglio del proprio presunto talento, in questo caso narrativo, ignorando che è proprio quest'ultimo ad indicare la strada, qualunque essa sia, e non viceversa. Nonostante l'errore dei più, in alcuni casi si crea consenso (leggi: successo), ma è tristemente conforme.
Mi sono apprestato a leggere Calvisi temendo di trovarmi di fronte all'ennesimo ingegnere della letteratura, che appena laureato mette in pratica i principi della sua educazione. Calvisi è educato, ma non spocchioso e per fortuna rinuncia ai proclami e agli stucchevoli sollazzi di una presunta superiorità intellettiva. Il suo stile è piano e non banale, e sia se parli di un padre 'perso' e di una sorella 'ritrovata' ('Credevo che fossi diverso'), sia se immagini un ragazzo che vuole uccidere l'amante della sua ragazza ('1995 - crisi glicemica'), sia se accenni appena al ferale G8 di Genova ('2001 – non voglio più servir'), sia che tratti di malattia ('La fimmina d'arremi', racconto veramente ben riuscito e commovente) , lo fa con la consapevolezza di voler essere compagno della propria creatura letteraria, non traditore. La letteratura di oggi tradisce le intenzioni ed è falsa. Quella di Calvisi non sarà esplosiva o geniale, ma almeno è onesta.
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