RECENSIONI
Marco Niro
L'uomo che resta
Les Flaneurs edizioni, 320 euro 19
La parabola umana, ascendente o discendente (vedete voi), mai comunque piatta orizzontale sull’asse cartesiano della nostra esistenza. Ecco, se dovessimo riassumere l’ultimo romanzo di Marco Niro, L’uomo che resta (Les Flaneurs) potremmo utilizzare questa imagery.
Diciamolo subito, a nostro avviso la narrazione non è perfetta: troppo lunghi – seppur interessanti – gli inserti narrativi (“spiegoni”, li chiamano quelli bravi) che ci comunicano qualcosa, ma rallentano oltremodo lo svolgimento della narrazione. Detto questo però, la storia che Niro ci racconta è bella e interessante, soprattutto intensa nella parte iniziale, quella meglio riuscita. È qui che vediamo gli umani passare da uno stato di natura, a quello di cultura, rappresentato da ciò che forse è stata la più grande conquista che l’uomo abbia mai fatto: l’invenzione del linguaggio.
Queste prime pagine sono notevoli per capacità espressiva e immaginazione: il linguaggio, dare un “nome” alle cose che ci circondano, suoni che inglobano un portato semantico, e poi organizzare questi suoni in qualcosa di più articolato, un racconto che ha uno scopo ben preciso: raccontare, soprattutto i pericoli.
L’uomo che resta è articolato su diversi piani temporali, quelli che vanno dalla preistoria alla storia prossima futura. Passato, presente e futuro si intrecciano in modo convincente, richiamando un meccanismo che alimenta una narrazione che vagamente ricorda Cloud Atlas, il film dei fratelli/sorelle Wachowski tratto dal romanzo di David Mitchell. Questa connessione tra tempo e spazio su diverse linee narrative, ha come collante il cambiamento climatico e delle “strane” uova di un materiale sconosciuto. Le uova... il simbolo dell'inizio della vita. Saranno il bandolo della matassa.
Da leggere.
di marco minicangeli
Diciamolo subito, a nostro avviso la narrazione non è perfetta: troppo lunghi – seppur interessanti – gli inserti narrativi (“spiegoni”, li chiamano quelli bravi) che ci comunicano qualcosa, ma rallentano oltremodo lo svolgimento della narrazione. Detto questo però, la storia che Niro ci racconta è bella e interessante, soprattutto intensa nella parte iniziale, quella meglio riuscita. È qui che vediamo gli umani passare da uno stato di natura, a quello di cultura, rappresentato da ciò che forse è stata la più grande conquista che l’uomo abbia mai fatto: l’invenzione del linguaggio.
Queste prime pagine sono notevoli per capacità espressiva e immaginazione: il linguaggio, dare un “nome” alle cose che ci circondano, suoni che inglobano un portato semantico, e poi organizzare questi suoni in qualcosa di più articolato, un racconto che ha uno scopo ben preciso: raccontare, soprattutto i pericoli.
L’uomo che resta è articolato su diversi piani temporali, quelli che vanno dalla preistoria alla storia prossima futura. Passato, presente e futuro si intrecciano in modo convincente, richiamando un meccanismo che alimenta una narrazione che vagamente ricorda Cloud Atlas, il film dei fratelli/sorelle Wachowski tratto dal romanzo di David Mitchell. Questa connessione tra tempo e spazio su diverse linee narrative, ha come collante il cambiamento climatico e delle “strane” uova di un materiale sconosciuto. Le uova... il simbolo dell'inizio della vita. Saranno il bandolo della matassa.
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