RECENSIONI
Olga Campofreda
Caffè Trieste. Colazione con Lawrence Ferlinghetti
Perrone editore, Pag. 127 Euro 10,00
Due sono stati i momenti in cui ho avuto l'impeto di abbandonare il libro. Il primo a pagina 17: Capita a volte con i libri, non sempre, di sfiorarne una pagina e sentirla pulsare. Allora sai in anticipo che non potrai più separartene.
Trovo l'affermazione di un'inesattezza e di una apoeticità disarmante e persino di cattivo gusto. Mi ricordo un'altra facezia di una scrittrice, di cui giustamente ho dimenticato il nome, che per fare la splendida affermò che non c'era nulla di più triste che trovare una biblioteca chiusa (personalmente, e perché l'ho sperimentato più volte, è molto più tragico trovare chiuso un bagno pubblico).
L'altro momento è stato verso la fine – come a dire che se avessi chiuso definitivamente il libro in quel punto non mi sarei perso pressoché nulla – in cui la scrivente incontra finalmente Ferlinghetti e al suo apparire dice: Lawrence Ferlinghetti compare alle mie spalle che c'è una luce forte a limitarne i contorni, solo quelli. Insomma tipo divinità o evento epifanico.
Non me ne voglia la Campofreda, che per altro ha scritto un decente resoconto, ma se una letterata è banale non può pretendere l'aura della credibilità.
I due passi riportati sono appunto banali, indigeribili, scontati, noiosi ed inessenziali. Sere fa mi è capitata fra le mani una silloge (ormai si dice così) dell'inessenziale Alda Merini. Accanto a poesie di una certa suggestione ce n'erano altre di una mestizia e di una mediocrità addirittura sedante.
Non si può essere grandi di qualcosa e poi cadere nell'anonimato. Dante, Proust, Montale ed io non abbiamo mai scritto un rigo banale e risaputo e non abbiamo fatto nulla perché non lo fosse. Si scrive per essere, più che per vivere.
La Campofreda ha dalla sua solo l'astuzia: ha scritto un libriccino sottotitolato 'Colazione con Lawrence Ferlinghetti' in cui un lettore medio s'aspetterebbe un colloquio col 'mito'. Tale colloquio in realtà avviene solo nelle ultime quindici pagine, il resto sono nostalgiche considerazioni su San Francisco una spannetta sopra una guida media per turisti non proprio distratti.
E per fortuna. Perché poi che ci si aspetta da un ultranovantenne che ha visto ormai tutti i suoi amici morire? Nulla se non affermazioni del tipo: lasciamo stare i morti, o che la Beat Generation lo è stata soprattutto per chi non l'ha vissuta personalmente, perché poi i poeti, come gli scrittori o le persone comuni non santificano le proprie esistenze, ma le vivono soltanto.
Sarà che non ho mai amato Ginsberg, Corso e appunto Ferlinghetti. Sarà che il movimento m'è sempre sembrato sopravvalutato ed ha lasciato dietro di sé una generazioni di persi e disillusi. Sarà che a l'Urlo ho sempre preferito la poesia di Stratone, ma questa 'Colazione' mi si ripropone un po', come quando si mangiano i peperoni.
di Alfredo Ronci
Trovo l'affermazione di un'inesattezza e di una apoeticità disarmante e persino di cattivo gusto. Mi ricordo un'altra facezia di una scrittrice, di cui giustamente ho dimenticato il nome, che per fare la splendida affermò che non c'era nulla di più triste che trovare una biblioteca chiusa (personalmente, e perché l'ho sperimentato più volte, è molto più tragico trovare chiuso un bagno pubblico).
L'altro momento è stato verso la fine – come a dire che se avessi chiuso definitivamente il libro in quel punto non mi sarei perso pressoché nulla – in cui la scrivente incontra finalmente Ferlinghetti e al suo apparire dice: Lawrence Ferlinghetti compare alle mie spalle che c'è una luce forte a limitarne i contorni, solo quelli. Insomma tipo divinità o evento epifanico.
Non me ne voglia la Campofreda, che per altro ha scritto un decente resoconto, ma se una letterata è banale non può pretendere l'aura della credibilità.
I due passi riportati sono appunto banali, indigeribili, scontati, noiosi ed inessenziali. Sere fa mi è capitata fra le mani una silloge (ormai si dice così) dell'inessenziale Alda Merini. Accanto a poesie di una certa suggestione ce n'erano altre di una mestizia e di una mediocrità addirittura sedante.
Non si può essere grandi di qualcosa e poi cadere nell'anonimato. Dante, Proust, Montale ed io non abbiamo mai scritto un rigo banale e risaputo e non abbiamo fatto nulla perché non lo fosse. Si scrive per essere, più che per vivere.
La Campofreda ha dalla sua solo l'astuzia: ha scritto un libriccino sottotitolato 'Colazione con Lawrence Ferlinghetti' in cui un lettore medio s'aspetterebbe un colloquio col 'mito'. Tale colloquio in realtà avviene solo nelle ultime quindici pagine, il resto sono nostalgiche considerazioni su San Francisco una spannetta sopra una guida media per turisti non proprio distratti.
E per fortuna. Perché poi che ci si aspetta da un ultranovantenne che ha visto ormai tutti i suoi amici morire? Nulla se non affermazioni del tipo: lasciamo stare i morti, o che la Beat Generation lo è stata soprattutto per chi non l'ha vissuta personalmente, perché poi i poeti, come gli scrittori o le persone comuni non santificano le proprie esistenze, ma le vivono soltanto.
Sarà che non ho mai amato Ginsberg, Corso e appunto Ferlinghetti. Sarà che il movimento m'è sempre sembrato sopravvalutato ed ha lasciato dietro di sé una generazioni di persi e disillusi. Sarà che a l'Urlo ho sempre preferito la poesia di Stratone, ma questa 'Colazione' mi si ripropone un po', come quando si mangiano i peperoni.
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