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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Massimo Grisafi

Almeno una volta l'anno.

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Almeno una volta l’anno, caschi il mondo, monto in macchina e vado a cercarlo. Ovunque si sia cacciato. Certe  volte lo trovo nei giardini della piazzetta, altre volte nell’atrio della stazione, altre ancora alla mensa dei cappuccini. Gli faccio mollare il cane a qualcuno dei suoi amici e lo spingo in auto. All’inizio lui non vuole venire, è recalcitrante, ma io non lo mollo. Non c’è verso di fargli allacciare la cintura. Lui mi mette il muso e comincia a bestemmiare, incrocia le braccia e sbatte i piedi sul pavimento. Ma io niente, proseguo imperterrito per la mia strada. Ogni tanto lo guardo dallo specchietto e gli dico:
                - Non pensi mai a quella disgraziata di tua madre? Riesci solo a immaginare quante lacrime ha già versato per causa tua?
                Giancarlo non mi degna di uno sguardo, anzi si gira e incolla la faccia al lunotto. Dà l’impressione di essere uno di quegli animali di pezza che si muovono al ritmo della macchina.
                - Non te ne frega proprio niente? – insisto mentre guardo la strada davanti a me.
Stiamo uscendo dalla città, di solito è ora di sera e di solito il tempo volge al bello, perché è di primavera che vado a prenderlo. Abbasso il finestrino in modo che lui possa sentire la fragranza dei profumi che è la stessa di quella di un tempo ed è l’unica cosa che ci metterà ancora parecchio a cambiare. Probabilmente sarà soltanto questo a tenerci uniti, un domani. L’odore dei campi in primavera e questo tragitto in macchina.
- Non te ne frega niente – ripeto, rassegnato.
Quando arriviamo allo studio, parcheggio e lo faccio scendere. Lui fa la solita manfrina, scalcia e si divincola da me che invece vorrei tenerlo stretto. Ormai non dovrebbe più provare a scappare perché è troppo lontano dai posti che frequenta, però non si sa mai che cosa gli passi per la testa a quello lì, così lo tengo fermo per un braccio.
- Mollami! – fa lui, con uno strattone.
- Ci mettiamo solo mezz’ora, lo sai! E ogni volta fai la stessa storia?
Giancarlo sbraita e sputa ma si lascia condurre fino al portone. È troppo debole perché abbia una reazione, e poi la sua filosofia di vita è che, se qualcosa ti deve capitare, allora non ci puoi fare niente. Stronzate! Se sei tu a tenere in mano le redini della tua vita, allora niente ti capita per caso: garantito!
- Forza, muoviti – gli faccio aprendo la porta e spingendolo su per le scale.
- Perché insisti, ogni volta? – mi chiede lui. – Non ti stancherai mai? Che cosa vuoi dimostrare?
Che cosa voglio dimostrare? Brutto moccioso! Gli do una spinta più forte delle altre e per poco lui non inciampa per le scale. Si appoggia alla ringhiera e credo che mi maledica, ma dalla sua bocca esce solo un filo di saliva scura. Per fortuna non ci ha visto nessuno.
- Forza – gli dico aiutandolo a rialzarsi. – Siamo arrivati.
Mi ricompongo e busso alla porta.
Il mio amico Marco ci saluta e ci fa entrare. A quell’ora lo studio è deserto, anche le signorine sono andate via da un pezzo. Cerco sempre di arrivare quando non c’è nessuno che ci possa vedere, perché sarebbe imbarazzante spiegare che cosa ci facciano lì un onesto professionista in giacca e cravatta e suo figlio barbone.
Ogni volta che lo vede il mio amico prova sempre a mettere a suo agio Giancarlo, ma è una battaglia persa in partenza:
- Ti trovo bene – gli dice tendendogli la mano con un ampio sorriso.
- Vaffanculo – gli risponde lui scostandosi e digrignando i denti.
Per fortuna Marco non gli da molta importanza. Chiede anche a me come sto, poi ci fa strada.
- Per di qua – e ci precede nel suo studio.
- Facciamo in fretta – mi raccomando io vedendo quanto mio figlio stia fremendo.
Marco s’infila guanti e mascherina e annuisce.
- Certo, cominciamo subito.
Invita Giancarlo ad accomodarsi sulla poltrona ma dobbiamo spingercelo noi e, una volta seduto, io mi metto alle sue spalle pronto a scattare se solo gli saltasse in mente di svignarsela.
Con molta calma, il mio amico regola lo schienale con un bottone e poi comincia a esplorare la bocca di Giancarlo. Ha in mano soltanto uno specchietto e lo specillo con il quale ogni tanto gli da dei colpetti sotto i denti.
- Tieni ben aperta questa bocca – lo implora.
Alla fine si rialza e posa gli strumenti in una vaschetta al suo fianco.
- Com’è? Com’è? – domando io, ansioso.
Lui mi fa un gesto che vorrebbe essere rassicurante, allora io mi tranquillizzo e mi faccio da parte. Il mio amico mette in bocca a Giancarlo il cannello per l’aspirazione e prende l’apparecchio a ultrasuoni per la pulizia dei denti. Si mette comodo, prima d’iniziare. Mio figlio intanto si è levato il beccuccio perché dice che gli da fastidio quella cosa in bocca e Marco, con molta pazienza, lo convince a tenerlo.
- Fa come ti dice – gli ordino io, di malagrazia.
Con la mano Marco mi fa segno di calmarmi e poi comincia a operare. Quella che segue è veramente una mezz’ora infernale. C’è Giancarlo che è infastidito da quella che ritiene una specie di violenza e non fa niente per nasconderlo: si agita, si scuote, prova a sollevarsi dalla poltrona e, ogni volta, sia io che Marco fatichiamo a tenerlo a freno. Il mio amico, oltre tutto, deve anche badare al suo lavoro. Lo vedo che suda e non è tranquillo. Penso che ogni volta mi maledica per quella mezz’ora di lavoro, ma mi deve dei bei favori e quindi non si può rifiutare. Del resto lo pago bene per quello che fa.
Quando si mette un po’ di pasta sul dorso della mano e inizia a spazzolargli i denti, tiro un bel sospiro di sollievo. So che quella è la fase finale e anche Giancarlo si rilassa. A dire il vero, ormai sembra inebetito, come se il ronzio del trapano e tutto quell’andirivieni attorno a lui lo avessero anestetizzato. Marco posa l’attrezzo e si rialza con lentezza.
- Abbiamo finito – dice a Giancarlo sfilandosi guanti e mascherina, – puoi sciacquarti la bocca. - Poi a me: - Soddisfatto?
Mi avvicino a lui e gli chiedo, in un orecchio:
- Come l’hai trovato? Ci sono problemi?
Il dentista scuote la testa.
- Una gran bella bocca, nonostante tutto – mi dice mettendosi a sedere alla scrivania. – C’è solo un puntino tra i due molari che non mi convince, ma avrei bisogno di una lastra per vedere meglio.
Inizia a compilare la ricevuta ma io lo fermo.
- Per il pagamento ripasso domani – gli faccio. – Un puntino, dici?
Poi, a voce più bassa: - Ti devo parlare…
Aggrotta le sopracciglia, perplesso.
- Mi devi parlare?
- Sì.
Marco annuisce e ripone penna e blocchetto.
- A domani, allora!
Giancarlo è rimasto a fissare le luci della lampada sopra di sé, imbambolato. Lo scuoto per una spalla e allora si alza. Barcolla e non dice una parola.
- Andiamo – gli dico guidandolo per un gomito. Marco lo saluta ma lui non gli risponde.
Per le scale per poco non cade, lo devo sostenere con forza.
- Hai bisogno di mettere qualcosa sotto i denti: da quant’è che non fai un pasto come si deve? – Mi viene un’idea. - Perché non ce ne andiamo da qualche parte, io e te? Che ne dici di quel posto dove andavamo con mamma a mangiarci una bella bistecca? Com'è  che si chiamava?
Subito capisco di aver detto una sciocchezza. Infatti Giancarlo si gira e mi fissa con due occhi gelidi.
- Riportami in piazzetta – mi ordina.
Alzo le spalle.
- Come vuoi tu.
Sulla strada del ritorno non ci scambiamo una parola, è ormai tardi per qualsiasi confidenza: mio figlio guarda le ombre fuori dal finestrino ed io mi concentro sulla strada. Nemmeno l’aria è più profumata, adesso, così tengo tutto serrato e metto solo un po’ di musica in sottofondo. Ripenso a mia moglie, cui si è spezzato il cuore a furia di piangere. Senza farmi vedere mi asciugo gli occhi col dorso della mano.
Prima di fermarmi in piazzetta provo a dirgli un’ultima cosa.
- Vedrai che un giorno capirai perché faccio tutto questo!
Non so nemmeno se Giancarlo mi abbia ascoltato, però dovevo dirglielo. Lui apre lo sportello e scivola fuori. La piazza è immersa nel buio a quell’ora. Solo la luce di alcuni lampioni, qua e là, la rendono quasi spettrale. I suoi amici sono tutti ad aspettarlo sulle panchine, il suo cane gli corre incontro non appena lo vede e Giancarlo lo abbraccia.
- Una bocca sana! – gli urlo dal finestrino mentre lui si allontana. – È solo per questo che lo faccio! Per la tua bocca!
Nessuno mi guarda, allora ingrano la prima e mi avvio, lentamente.
- Tu nemmeno lo sai quant’è importante, avere una bocca sana – ripeto a me stesso.

Dopo, qualsiasi ora sia, devo andarmene al mare. È più forte di me. Ci sono parecchi chilometri, ma non fa niente. Parcheggio vicino allo stabilimento e mi avvio verso la spiaggia, a piedi nudi. Mi avvicino il più possibile all’acqua, lontano dai rumori e dalle luci. Voglio solo le stelle e il fragore del mare. Accovacciato sui talloni, in equilibrio, raccolgo sempre una manciata di sabbia e me la porto alla bocca. Ne aspiro l’odore, così aspro. Mi sembra di ritornare indietro nel tempo, a quando si era un po’ più felici.
E lì, dove nessuno può vedermi, con l’onda lunga del mare che mi scorre tra i piedi, finalmente comincio a piangere.






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