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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

David Calvo

Ambient otaku

immagine
Ho rimediato uno spazietto vitale risicato per sistemarci la mia roba - un monolocale. I miei possessi: un futon ammuffito, una tavola su d'un cavalletto, tre libri - scordati quali. Di notte, il termosifone fa un rumore di timpano, come le tubature sistemate sotto gli androni, la cui resistenza alla dilatazione dà un rumore stereo. Di giorno, dormo, il che m'impedisce una corretta gestione della mia vita, o di rimediare un lavoro. Mi sveglio al limite del tardo pomeriggio, guardo quelli che passano, osservo i barboni barbapapà che gironzolano, arrivo al caffè più vicino per disporre d'un PC connesso - pago a tempo, per consultare la mia mail. Niente amici ho, niente messaggi, niente. C'ho gli spam, c'ho spam, spam, spam, tanti di quegli spam che li potrei copiare, ma preferisco scriverli. Con la fluorescenza dello schermo sui miei occhi affaticati, compilo frasi astruse per passare il tempo, dei brandelli nei quali trovo un senso, un controsenso, delle verità nascoste dietro uno spot che decanta dello sperma in provetta, dei conti segreti aperti in Indonesia - beneficiaria, una società di microchirurgia. Talvolta vado sulle chat, confronto il mio minuzioso lavoro di compilation con quello dei neo-poeti, pura analogia capitalista, come una voce macintosh che produce le sonorità d'una tastiera ridotte a un monotòno. M'immagino elemento critico d'un sistema urbano. So però che nessuno mi lascerà esprimere. Non sono stato un granché come scolaro, non avevo bastante scienza per mettermi in mostra. La mia espressività fu impastoiata, calpestata dagli usi di certi stronzi, e adesso mi ritrovo ad essere inutile, e tuttavia è in questo vuoto che devo trovare una legittimazione. Non basta essere inventivi, bisogna riuscire a co-mu-ni-ca-re, mi fa male parlarne, nessuno m'ascolta. Non considero il linguaggio come un utensile, ma come una prigione, dunque i miei errori ortografici sono volontari, dico no alla dittatura della grammatica, 'sta scienza da cojoni. Finito è il tempo dei controlli, delle botte col righello. Sta a noi riprenderci quel che c'è dovuto, quel che c'hanno sempre rifiutato. Non sono un generale, ma imparerò a prendere a calci in culo la disperazione. Non ne posso più del cinismo. Non voglio essere uno zombi.



Sì, il cittadino sconosciuto

Non mi ricordo l'ultimo

I vecchi soldati non



flattened pate is now



Quando non ho più niente da fare, mi lavo i denti, unica concessione alla mia intimità che pratico. Mi piace troppo il dentifricio, mi piace la sua pasta molle sulle fibre dello spazzolino, mi piace assimilare i suoi gusti mentolati, sottili mutazioni d'un identico sapore, con o senza fluoro. Il dentifricio è un contrassegno del nemico che ci controlla i denti, l'alito, infine la capacità d'esprimerci: una bocca sudicia parla meno, alla fin fine, non sempre, e certi non se ne rendono conto, ma se tutti avessero i denti lerci, il volume delle cazzate diminuirebbe almeno d'una tàcchia. Certo, se tutti avessero le mani luride, si scriverebbero meno stronzosità, e però la scrittura è un piacere solitario, tipo la masturbazione, altra attività igienica d'una zozzerìa banale.

Mi duole sempre più vivere da solo. Lo spazio ogni giorno si riduce, l'ansia mi cresce, mi cresce l'impressione che i muri si stringano, stritolando la mia collezione di scatole da pizza. Mi sono sbarazzato dei miei tre libri da tempo, non riesco più a leggere, a parte le scritte sul cartone degli scatoli e niente più, come non sopportassi la possibilità d'aver fallito. Mi sogno poeta, ma il mondo non mi vuole, mi sogno dandy, distaccato dal reale, spinto dal mio volere, ma l'asta da raggiungere è troppo alta, anche troppo fragile, non la sorpasserò mai, non ci voglio neanche provare, e allora, per stizza, scribacchio su dei quaderni compiute imitazioni di spam, spam per raccontare il mondo. Cerco di dar loro un senso, traduco senza successo la loro delicata alchimia improvvisata, la chiave di volta che regge tutte queste risposte automatiche. Penso, magari a torto, che semplicemente non si dia che una coincidenza nel loro spontaneo disporsi, una verità immanente nella loro ripartizione. So che questa non è la soluzione, che resta una fuga - la pubblicità non è un'espressione - e tuttavia non posso vietarmela: ciascuno di questi spot è una storia, replica d'un mondo che si ripete, che si copia ancora ed ancora, fino al disgusto di sé, fino al suo cuore, finché il sistema crollerà su sé stesso, in origami invertiti. Quando sono stanco di redigere queste parole, piego la carta che ho scritto, e lascio sul pavimento uccelli e barchette, insozzati di frasi sconce.



1800 dru6store

Il definitivo sperma online

La forza del Chi-gong

Double penetration blast



Hey

you

thousands of cum guzzling

amazing diet patch



Sto al rosso del semaforo d'una scesa tipo, con le braccia stracariche di cartoni, e vedo 'sto tizio, dall'altra parte della strada. Indossa un completo grigio, sporco, che gli va stretto, e c'ha la barba dello stesso colore. E' più che adulto, abbronzato, c'ha qualcosa d'indiano, tipo il fachiro in Cigares du pharaon (1), con le linee del volto tirate. La barba embricata solca infino le orbite dei suoi occhi. Mi fissa - o no, i suoi occhi sembrano bloccati, vedo che non batte ciglio. Sul marciapiede ha posato due secchi di plastica, con le etichette sbiadite, pieni di pagliette clorate. Prima d'attraversare si piega a novanta gradi per prenderli, e i loro manici di metallo si equilibrano con delicatezza sull'epidermide delle sue dita. C'incrociamo nel mezzo del quadrivio, incasinato di frecce direzionali sotto il sole, e per la prima volta gli osservo i piedi: ce l'ha neri di sudicio, incretati, li calzano delle Adidas squaquaracquate - le suole son tenute con lo spago. Lo vedo scomparire sul pizzo della salita, una sagoma spezzata verso avanti, pendula, che barcolla.

Ritorno in me, in quel che resta di me, chiedendomi se quel tipo avesse mai pensato di farsi ombra, e cercando d'immaginarmi il futuro mio, senza riuscirci, mi viene solo un buco nero che s'inghiotte la luce che emana. Cerco di dormire, ma il mio stomaco protesta ch'è vuoto, vuoto! Mangio soltanto creme, ma la sola che mi rimane è quella dentifricia. E, come le altre, la sua marca fa la differenza. Non c'è nulla oltre il nome che faccia intuire il sapore che uno s'aspetta, la qualità dell'esperienza. E però è una questione comunque percettiva, le creme hanno tutte uguale sapore, ma forse non la medesima tessitura del gusto. A meno che uno non sia un intenditore, o un italiano, una pasta vale l'altra quando si tratta di fermarsi lo stomaco, è conoscenza intuitiva. A ogni modo, non ho più un soldo, perciò quel che posso fare è mangiarmi il dentifricio - ricette diverse: ripassarlo in padella, o a bagnomaria, oppure spalmarlo crudo su del pane azzimo. Stasera, mi sento d'essere una buona forchetta: lo faccio marinare sul fondo di cipolle che m'avanza, e lo degusto guardando la città che s'illumina.



Meridia, Cialia, Propecia

Amazing health cancer

Die



Rilassare ogni fibra



Casa mia è zeppa di cartoni, la mia scrivania è coperta di carte riciclate, il futon è macchiato di sborra. Passo i miei giorni a cercare una casa nuova - non ho più i soldi per pagare l'affitto - così come le mie permanenze al caffè, connesso alla rete, si fanno man mano più lunghe. Non rientro che per riporre e riordinare le poesie, le mie pieghe. Quando non lavoro faccio scorrerie nei mercatini, nelle botteghe a consegna avvenuta, colleziono cartoni come altri dei muri da graffitare, li impilo con cura, classificandoli secondo le marche, per l'alto e per il basso. Certe volte, rimangono dei fluidi sugli imballi: legumi pìsti, olio, frutta secca in granelli. Sistemo le cose minute in una scatola piccola, di cartone sempre, il mio scrigno segreto, le briciole del mio risiedere. La mia opera letteraria supera le mille pagine ormai, ma qui soffoca, come me. Sono fatto per un'altra vita, altrove, una vita di movimento, di trasferte. Lei non fa altro che aspettarmi, mi mormora delle cose la sera, una compilation di parole d'amore sentite nelle sit-com che passano tra mezzogiorno e le due sullo schermo della tele del kebabbàro dove mi cibo. Lei mi dice: vieni, lascia perdere questa follia, stringimi tra le tue braccia, una volta fuori non rischierai più niente. Il mondo sarà il tuo regno. Mi sveglio terrorizzato, raccolgo e scribacchio un'ultima iterazione, aspetto. Nel mio pugno, pulsa il led della mia batteria. Prendo lentamente coscienza della mia nuova condizione: fuggo dalla mia umanità, non sopporto più gli sguardi altrui, quel che si aspettano da me, vorrei diventare un altro, ma non posso, allora mi convinco d'essere un automa. E' più semplice che cambiare sesso, anche se avevo preso in considerazione la cosa, però non c'ho i soldi per pagarmi gli estrogeni, dunque rimpiazzo ogni fibra di me con una sub-routine. Tutte le mie emozioni divengono programmi, il mio corpo secerne un esoscheletro di titanio, armatura che mi proteggerà dalle aggressioni di questo mondo. Sono un carro blindato, non devo più aver paura di loro, non devo più abbassare gli occhi. La strada m'appartiene, i loro cartelli pubblicitari non avranno ragione della mia identità. Sono conscio della mia forza. Li posso distruggere. Il mio vantaggio: non sanno che esisto, imparo a diventare invisibile. Dolce paradiso del mimetismo in un ambiente ostile.



Vìcodin e idrocodone

My nightmare of fortune



Park the almanac herald



Dimentica le cioccolate



paralitico, eppure cammina



M'improvviso boa, gavitello. Entro in lotta contro le auto, divento semaforico rosso, mi piacerebbe così tanto che sparissero, porche, porche, qui è così, lasciateci respirare. Nella folla che esce dalla metro, mi distacco, chino all'angolo del quadrivio. Sto su una gamba, come facessi un esercizio, mi muovo lentamente nel flusso, facendo scattare le articolazioni, automa di carne in una pioggia d'olio. Fuggitivo, il mio bilanciarsi riordina il caos di questi corpi in trasferta. L'urto sottile dei loro usi sintetici ed il clamore della circolazione strozza la mia presenza, ma il mio k-way bianco sega i dintorni, è un fruscio in questa foresta di linee e di velocità. Assorbo la pioggia nelle mie piume, senza che ne cada una goccia. Ballo nel centro dei nodi del traffico umano, dove la folla s'addensa - all'uscita d'un negozio, d'una sotterranea. Concepisco: il cervello reca una priorità simmetrica, il corpo una asimmetrica. Tento di certificare che entrambe sono possibili nello stesso tempo, provo celare la verità nel momento in cui l'affermo. Questa petizione d'identità esercita sull'osservatore un fenomeno d'identificazione. Cessando il moto rispetto all'osservato, l'altro diviene colui che danza, e s'arresta nel suo moto browniano per quest'intimo riflesso. Dopo la coreografia, distribuisco le fotocopie dei miei versi a quelli che le vogliono leggere, echi del mondo familiari benché assurdi. Dopo quest'impeto, percorro la città redigendone il repertorio dei segni, dei tracciati sul muro, graffiti del nostro valore.



L'ABUSO D'EGO E' PERICOLOSO PER LA SALUTE



Questi contrassagni ci forgiano a divenire combattenti migliori. Non è una rivolta adolescente, ch'abbia sollevato questioni gravi. Si tratta della caduta libera d'un grave in un sistema centrifugo. Si credono viventi, hanno quantizzato la vita. Vogliono farci inghiottire l'economia. Insegnamogli a scialacquare.



Gigaro (*)



strings of bags hits bag

Then, at then, this

Who cares if it hurts

________________________

Arum maculatum, erba velenosa con

foglie screziate e tuberi ricchi di amido.



falsi Gucci




Vado a fare delle fotocopie dei miei poemi, delle mie opere, alla copisteria sotto da me, gestita da due coglionazzi con camicia a sacco che malodorano di dopobarba da due soldi. Chiedo sempre la medesima macchina, c'infilo una carta d'abbonamento che m'hanno plastificato sotto gli occhi - da quei grandi professionisti che sono, ci si sono messi in due. Ipnotizzato dal movimento del fascio luminoso, vedo sfilare queste iterazioni poetiche, acquistare un'esistenza, queste parole che io prendo per me, che diventano mie, qualcosa di concreto nella mia vita, il mio genio. Passo le ore a copiare, ritagliare, mettere in forma, rifotocopiare. Dietro il loro banco in mogano, i mastri copisti mi guardano fare, ammirati o addirittura invidiosi, si fan beffe di me, ridacchiano della mia bardatura, una tuta composta da quel che rimedio nei mercatini, autentica corazza che mi tiene caldo. Una volta finita la mia compilation, pago ogni copia contata, approssimando al centesimo. Sul banco qualcuno ha lasciato una petizione per un oscuro lama in galera, leggo le generalità dei coraggiosi che hanno firmato per esteso, niente pseudonimi per gli abitanti del quartiere, e, alla sesta riga, al mio occhio risalta un nome che conosco, che credevo svanito sotto drappi di pixel. Questa ragazza m'aveva spezzato il cuore una sera sotto i portici, perché voleva altri uomini, altre esperienze, lasciarsi andare, non dovere niente a nessuno. Lei ha lasciato qualcosa di strano nel mio spirito. Siamo nati lo stesso giorno, andavamo all'università, e non aveva mai conosciuto quel che gli uomini chiamano amore - io languivo per lei. Per sei mesi facemmo vita comune, per sei mesi imprestavo i percorsi della sua narrazione, senza rendermi conto che gli restituivo i miei - illusione che mi confortava. Era volubile, la sua disperazione si scioglieva in fughe, rifiutava di accettare quel che le offrivo, ma aveva ragione, non conoscevo nulla di lei, divenni maldestro, geloso, chiudevo gli occhi baciandola, passivo. Finì per andare a cercare altrove, le piansi giorni interi davanti, la implorai, la supplicai. Persi onore e dignità. Ce l'ho con lei a morte: dopo di lei, non ho mai più amato. Mai più così. Non ho mai - forse - amato.



re: feta cheese my precious

Deep, hard, and

Well,of course, as

Un tavolino tra loro



STOP E-MAILS LIKE THIS



Le faccio la posta tutti i giorni davanti alla copisteria, nella speranza di vederla entrare per copiare qualcosa. Divento un habitué della strada: per passare il tempo, studio ogni fessura, ogni pubblicità, ogni graffito, ne studio la natura per darmi un contegno. Raccolgo dei sassolini, dei pezzetti di legno, faccio un mazzetto di certa erba malaticcia che spunta dalle crepe del cemento. Passano i giorni senza che io rimetta in causa la mia esistenza, e questo è già un progresso. La ragazza non tornò, così sviluppo un gusto estremo per la copiatura a ripetizione, un feticismo per il toner e la carta fotosensibile. M'accorgo che per essere un buon copista, bisogna saper imitare gli altri, diventare gli altri. Tutti i giorni, copio i miei poemi e imito gli altri, i loro passi misurati, il loro dilettantismo, cerco di diventare come loro, di vedere la duplicazione per la prima volta, questa energia in me come l'istantanea della mia intimità, una creazione personale assistita dalla macchina. Comprendo questo bisogno fondamentale di duplicare il proprio pensiero - e se fosse possibile duplicare la mia anima? Queste macchine sarebbero abbastanza potenti? Completo un ultimo slogan, che mi prefiggo divulgare:



LA PUBBLICITA' STUPRA IL NOSTRO IMMAGINARIO



Mi ricordo di quando ho vacillato: un giorno, dinanzi la mostra di un venditore di tv, ho visto uno spot, una donna in una piscina, che s'immergeva per raggiungere la macchina parcheggiata sul fondo. Avevano osato mettere come jingle un pezzo dei Board of Canada, l'unico gruppo che avevo conservato dalla mia vita precedente. Il mio giardino privato, qualcosa di molto intimo, ridotto al peggio. Me l'hanno svuotato. Non mi sono più ripreso. Se la pubblicità è uno stupro, lo stupro di noi, della nostra cultura, di ciò che ha formato le nostre emozioni, allora è necessario riappropriarcene, d'utilizzarla per dire quel che abbiamo da dire. Riprendiamoci quel che ci è dovuto.



I said Hegemon

You need this

Peein', squirtin', fisting



bulletproof hosting only



Libero il mio cubicolo senza preavvisi. Sparisco dalla circolazione con le mie scatole, non lascio che il futon. In un vicolo cieco, trovo una superficie ove disporre il mio territorio, ho rimediato il posto in una settimana. C'ho sistemato la mia collezione di cartoni, i più flosci come pavimento e gli altri come pareti, a fare da tunnel, da giuntura a due pezzi grandi dove posso entrare seduto. Ammobilio un salotto, una camera da letto coi miei poemi a fare da giaciglio, e tutto quest'inchiostro da fotocopiatrice che mi sporca, segna i miei panni. Faccio i miei bisogni all'esterno, per mantenere respirabile l'aria. Non sono più così lontano dalla copisteria, devo replicare ancora molto, ho molti pezzi da rubare, vorrei cominciare innanzitutto da quel che la pubblicità ha d'erotico, una certa dittatura del reggipetto, della puttana in ginocchio, del maschio ben modellato, vorrei prendere 'sta roba, farne qualcosa d'importante, ma che? Sono così maldestro di mano. La sera, rannicchiato nel mio letto di carta, ascolto il fischio delle bombolette sul muro: questi artisti sbombolatori osano riconquistare il controllo toltogli, ma non ho le loro capacità, non sono mai stato un artista, bensì un ladro, ed è nel furto che mi riconosco. Ne ho abbastanza di mentire, non sono caduto così in basso per risentire della frustazione, è da qui che ricomincio. Il mattino, mi faccio i mercatini per rimediare sempre più cartone, col quale tappare i muri della mia cuccia, e certi banchisti mi dànno di che mangiare, il che mi solleva dal dentifricio. Insulto tutte le macchine, m'importa assai chi le guida, sarebbe come biasimare i credenti per le assurdità del credo. A certi veicoli, parlo clacsonando, rifaccio il clamore del clacson. I poliziotti hanno dei giubbotti antiproiettile in kevlar, spesse volte mi trascinano via perché turbo la quiete pubblica, la dolce musica degli slogan, le voci fuori campo delle donne, i discreti (blinks et blanks)(2) sotto la pioggia. Malgrado questi nuovi poemi che pullulano sui muri, ho la sensazione d'essere solo, solo a capire che non è solo un capriccio: sono ben formato da questo mondo, come un ologramma forma una galassia d'informazioni. Non so più se quel che penso, ciò di cui faccio esperienza, mi appartiene, o è solo compulsata ingestione di ciò di cui m'hanno ingozzato. Quale di queste opzioni devo incarnare? In che misura sono parte di me? Frammentate, nascoste, come delle schegge nel mio corpo. Se sono un rigurgito d'esperienza, forse potrò espellerle, duplicarle, farle marciare al mio fianco, come degli origami. Disponendo questi ultimi versi raccolti ieri, io traggo un'idea forte d'una di queste incarnazioni scomparse. Non sono alla ricerca d'uno stile, ma d'una sostanza, una tessitura per dire l'indicibile, ma non ho abbastanza spazio in me per conservare tutto, dovrei fuoriuscirlo. Frammentarmi.



Tessiture // un'odore d'asilo nido illividisce il latte caldo che bevo per pigliare sonno, che m'intiepidisce durante la notte, la notte dei residui visuali e olfattivi, i limiti d'un'avventura che comincia nel morbido d'un pannolino // il contatto della plastica sulla mia pelle sensibile // la moquette che fa delle palline di pelo tra le mie dita mentre gattono su questo territorio che divido in settori per apprendere a conoscerlo e ad amarlo // l'erba su cui mi rotolo coi miei fratelli lanciandoci dall'alto d' una scesa fino a toccare la terra su cui arriviamo, i nostri visi coperti da un'accozzaglia vegetale che confonde i nostri tratti nel sole // la sera per farmi addormentare i miei genitori mi cinturavano in un bozzolo di gommapiuma facevano sei volte il giro della casa con l'auto e i movimenti e le luci mi cullavano // tutti i miei errori avevano il gusto di quella segatura che le tate spargevano sul vomito dei nostri piccoli compagni alla mensa loro rigettavano gli spinaci gratinati e le lenticchie malcotte brustolite per il calore // rollare sul pavé per ritrovare un movimento che non fosse puramente lineare //tutte le immagini inghiottite i film i suoni gli slogan che ci hanno fatto tanto quanto le esperienze, le parallele tanto quanto le coccole che ci resta di questi miti hanno una tessitura queste menzogne hanno un futuro abbiamo di che sopravviverle? Non c'è più nulla per noi marciamo in un deserto questo posto lo chiamano deserto baby.

Digital mute

Better your spermatozoan

Warning: your neurologic

loose while you sleep



Crème Electrigel



Non ho mai pensato alla lotta armata, anche se si trattasse di combattere il nemico con le sue armi, ma il giorno in cui quel trafficante mi propose di acquistare una doppietta a canne mozze, io dissi di sì. Mi ci sono volute tre settimane per rimediare i soldi, ho mendicato un po', ho rivenduto delle scatole a destra e a sinistra, ho fatto qualche turno alla Posta. Per ricompensarmi della mia fedeltà, il trafficante mi offre un po' di droga incerottata nello scotch, e dieci pallottole. Mi ci vogliono dei giorni per decidermi. Dalla mia nuova villetta, semino un sentiero di sassolini, di quadrati di legno, di pezzi di metallo, insomma una pista. Entro alla copisteria tra mezzogiorno e le due, non c'è tanta gente, e nemmeno la ragazza. Li studio uno per uno, so che non sono io che sparo, che si tratta d'un'iterazione più violenta. Contemplo la carneficina con uno sguardo assente, proprio distaccato. Le canne della doppietta emanano un fumo bianco, purificatore. L'inalo per purgarmi. La mia fotocopiatrice m'attende, ronronnante. Spando della colla sul mio corpo, quella dei tubetti ramazzati dietro il bancone vuoto. Non dò che un'occhiata priva d'interesse ai cadaveri squarciati, dalle camicie macchiate. No, mi stendo sul piano, in posizione fetale, ripiego la copertura di plastica spessa, allungo un braccio per cominciare la replicazione, cinquanta copie di me stesso, dell'anima mia. Chiudere gli occhi. Passare nella luce. Passarsi allo scanner. Un percorso sul viso, un calore, quando il mio essere viene sintetizzato dalla macchina, tutti i miei ricordi rigurgitati, anamorfizzati, non importa il processo se si hanno dei risultati: l'ammontare di quel che sono, ridotto a una congrua, una semplice bustarella, come hanno l'abitudine di fare i neri preti nelle loro agre questue, rubarci l'interiore per non lasciare che il guscio vuoto, immagini rassicuranti di noi, ma è tempo di ridare le carte, abbiamo appreso a vivere di nulla, abbiamo ripreso la strada, svuotato questi tabelloni e questi cartelli, distrutte queste macchine. Riprendiamoci l'asfalto, riprendiamoci lo spazio, è nostro.



Friend, there is nothing

stop kidding yourself

Your last chance

This is it forever

this is war



Fotocopiato, il mio essere è doppio. Queste macchine sono assai efficienti, velocità massima di riproduzione 75 ppm, una risoluzione di riproduzione massima di 600x600 ppp, collegamento duplex automatico, ingrandimento massimo dei documenti x400, omologate FFC classe A, EN 60950, UL 1950, IEC 60950, (3) sufficienti per stabilire un rapporto informazionale col mio hard disc. Pratica d'essere automa, la nostra personalità consiste nell'accumulazione di frammenti d'informazione, pezzo per pezzo essi compongono il mio viso, stringhe codificate, dati in linee svolte, facilmente traducibili nei linguaggi informatici. Una per una le copie di me stesso sortiscono dalla macchina, un foglio alla volta. La mia anima su questa carta riciclata, le mie esperienze, quel che sono, tutte queste fibre, particelle infime che mi compongono, che ritrovo espresse in due dimensioni. Una per una, escono dalla feritoia piatte, scivolando sul pavimento, sviluppandosi per raddrizzarsi, filiformi, si girano per guardarmi, l'una dietro l'altra. Quando mi rialzo, quelle mi portano in trionfo, si prosternano. Cinquanta altri me, dinanzi, in piedi dalle orbite vuote, gelide, pronti a marciare. Un esercito di me, dunque. Benissimo: marciamo assieme, andiamo, abbiamo un mondo da abbattere, non ci prenderanno vivi, ma tutto è finito, quelli si realizzano nell'iperbole, continuano a mentirsi per credere un istante alle loro vite costanti, limitate dalla materia, per la sua quantificazione numerica. Sta a noi far loro capire, a noi di sfilare tra loro, alta la testa, di mostrar loro di quale essenza siamo fatti, poemi immediati, pure sintesi di slogan, d'immagini sviscerate, i nostri sogni saccheggiati, il nostro futuro digerito. Andiamo, miei soldati di carta, è ora. Li dispongo in ordine di combattimento, una prima linea per fronteggiare il nemico, noi siamo cinquanta, cento, duecento, ogni foglio diviene un nuovo combattente, posizionandosi alle spalle degli altri, concentrato, a pugni chiusi. Su un'altra macchina, stamo una nuova frase che mi gràffo sul petto, la pelle rifreddata, delle macchie di sangue, che mi gustano. Passo tra le schiere, e graffetto questo mantra sui torsi di ogni altro me, uno alla volta. Un esercito di me.

Sui loro petti, una corazza:



VOI STATE PER MORIRE

NON TOCCATECI

O MORIREMO ANCHE NOI



Note:

1 – E' un episodio del fumetto Tintin

2 – Suono di una macchina elettronica

3 – Specifiche tecniche di una fotocopiatrice





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