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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Nir Baram

Brave persone

Ponte alle Grazie, Pag. 560 Euro 22,00
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Non del tutto facile oggi trovare scrittori che nella parola "politica" vedano l'orizzonte ineludibile di un tema che invece i più provano a chiudere in una dimensione molto circoscritta: quello della responsabilità individuale. Scrittori convinti che non si possa fare a meno di misurarsi con le condizioni politiche di fondo in cui ci si trova a vivere, a meno di non raccontarsi favole e ritenersi parti irrelate dalle pre-condizioni determinate dal potere politico – qualsiasi cosa significhi, anche che non ve sia più uno propriamente detto.

Quello che succede ai due protagonisti del romanzo del trentacinquenne israeliano Nir Baram Brave persone (Ponte alle Grazie, traduzione di Elisa Carandina) è un'esemplificazione si fa per dire della "banalità del male" a suo tempo descritta da Hannah Arendt - che avrebbe dovuto vaccinarci dal pericolo di un rinculo individualistico accampato nell'illusione che basti non partecipare "attivamente" al male per chiamarsene fuori. Nelle vicende alternate del ricercatore di mercato Thomas Heiselberg di stanza nella Berlino nazista e in quelle di Aleksandra Andreevna Weisberg, ebrea russa che deve vedersela con lo stalinismo, l'equilibrio esistenziale viene messo a rischio ma non quanto ci aspetteremmo. Loro sono «brave persone», non hanno intenzione di farsi distrarre dalla devastazione che si va compiendo intorno. Gente comune insomma, seppure, va detto, non di ceti in difficoltà, di quella che crede (o finge di credere) che fare il proprio lavoro è tutto. "Brave persone" che continuano a vivere la loro vita, omettendo, chiudendo gli occhi, giustificandosi. Che non rinunciano alle proprie ambizioni. Thomas, in particolare, non sente nessun senso di colpa se si tratta di salvare la sua attività e con essa la propria buona coscienza. Il prezzo da pagare, la connivenza con il regime, insomma, è un dettaglio ai suoi occhi molto marginale.

Per Baram, il problema è lì, nella tendenza degli uomini a mentire a se stessi, a raccontarsi il mondo e se stessi nel modo più indolore possibile, letteralmente ir-responsabile. L'auto-costruzione di una corazza psicologica difensiva, come un collante che in fondo spiega il fatto che molti regimi totalitari abbiano goduto pure di un certo consenso, al netto – va da sé e ammesso e proprio non concesso che si possa misurarlo – della costrizione coatta. Del resto, vale non per caso la reciproca. Nei regimi si creavano sempre occasioni per notare chi c'era e chi non c'era; facile "marchiare i codardi (i secondi) con un segno d'infamia che mai sarebbe stato cancellato". Non che faccia del moralismo precettivo Baram, ma rifiuta anche di giustificare i suoi personaggi; mette le loro azioni e le riflessioni che essi stessi producono, davanti al lettore.

"Ogni cosa è politica, ma non nel senso che siamo tutti coinvolti nella politica, ma nel senso che non si puo' scrivere senza questa coscienza politica, non vale certo quello che diceva Speer il quale si considerava un professionista, un ente non politico": se queste cose le dicesse uno scrittore italiano oggi gli riderebbero dietro. Si potrebbe obiettare che la particolare situazione israeliana glielo impone. Forse; però lì dentro ha scelto una posizione non facile, quella di contestare la chiusura in se stessi degli israeliani che rovesciano le loro pur legittime paure sui palestinesi rendendogli infernale la vita quotidiana



di Michele Lupo


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