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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Stefano Torossi

C'era una volta.

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C’era una volta…
Nel 1878 Alfred Strohl-Fern, un signore alsaziano, artista e mecenate, e soprattutto ricchissimo, comprò otto incredibili ettari di terreno appena fuori Porta del Popolo (l’idea che poco più di un secolo fa si potessero ancora comprare ottantamila metri quadrati in pieno centro è sbalorditiva), ci impiantò un bosco incantato, un giardino favoloso, un laghetto da sogno, costruì una villa per sé, e accanto a questa una trentina di studi nei quali invitò pittori, scultori e poeti a vivere e lavorare.
Vent’anni dopo ad Anticoli Corrado, poverissimo paese di pastori in Ciociaria, ma già famoso perché le ragazze e i ragazzi da lì scendevano a Roma, e, ai piedi della scalinata di Piazza di Spagna, si offrivano come modelli ai pittori della vicina Via Margutta, nasceva Pasquarosa.
Che era la più bella di tutte. Anche lei scese a Roma, fu modella, sposò il suo pittore e diventò Pasquarosa Bertoletti. Ma fece qualcosa di più delle altre. Era analfabeta e imparò a scrivere; non sapeva cos’era un pennello e diventò presto un’audace pittrice di talento. E tutto questo era cominciato nella boheme, poi diventata successo, in uno studio di Villa Strohl-Fern.
Dove, in un altro studio, quello del pittore Trombadori, l’unico rimasto intatto (erano tutti uguali), con ancora i quadri alle pareti e gli stessi mobili di allora, la sera del 7 giugno gli attori Gloria Sapio e Maurizio Repetto ci hanno raccontato in forma di diario a due voci la favola di Pasquarosa, da pastorella ignorante ad artista internazionale. Promotrice, l’Associazione Amici di Villa Strohl-Fern, che si batte, finora con successo, perché questo frammento del passato non finisca fra le fauci della scuola francese, ivi ubicata, che sta cercando di papparselo.
Una serata deliziosa, di ricordi e riferimenti alla storia del secolo scorso: arte, costume, politica, due guerre e una dittatura. Solo cent’anni, ma pieni di movimento. Come ultimo regalo a fine spettacolo, prima di accompagnarci al cancello della villa, che purtroppo (o per fortuna) non è aperta al pubblico, ci hanno fatto fare un giro nel bosco per vedere le lucciole. Milioni ce n’erano.
“Una Striscia di Terra Feconda”
Accoppiata jazz Italia-Francia in un festival organizzata da Paolo Damiani al Teatro Studio del Parco della Musica a partire da venerdì 6. Due diavolesse francesi aprono le ostilità: Fanny Lesfargues al basso-chitarra, Raphaelle Rinaudo all’arpa elettrica con idee, suoni, luci e gesti davvero nuovi, aspri, provocatori. Proprio nel carattere dell’iniziativa.
Più tradizionale, come facce e strumenti, ma altrettanto audace e spericolatissimo come suoni il duo di pianiste Rita Marcotulli e Sophia Domancich.
L’audacia va avanti per parecchie altre serata in cui ci sarà sempre un doppio contrasto-complicità di esecutori italiani e francesi.
Insieme alle congratulazioni per la sua ostinazione a tirare dritto con questa bella idea, a Damiani giungano le nostre condoglianze per la situazione ufficiale, da lui stesso illustrata prima del concerto: neanche una lira dagli sponsor istituzionali, addirittura uno di loro, pur lasciando intravvedere una minima possibilità, ha aggiunto che le delibere degli stanziamenti si faranno a settembre. Per un festival che va a giugno ci sembra un bel tempismo. Per fortuna, una volta tanto, la vituperata Mamma Siae è arrivata in soccorso con una somma non grande, ma da tamponamento. Le vecchie istituzioni, se sollecitate (onore al merito aggiunto di Damiani, egregio sollecitatore) ogni tanto danno cenni di vita.

Problemi di tempo (non musicale)
Un quadro (una scultura, un’architettura) li si riesce a giudicare nei pochi secondi che l’occhio ci mette a scannerizzare, confrontare con lo standard estetico di chi guarda e catalogare. Per una musica (un film, il teatro, anche un libro), bisogna aspettare fino alla fine perché occhio e orecchio registrino e spediscano il tutto alla valutazione del cervello. E’ una faccenda che ruba un sacco di tempo alla nostra vita. Quando va male, il danno è forte. Tanto quanto il piacere, se va bene.
Piccola premessa per raccontare la serata di lunedì 9 all’Istituto Giapponese di Cultura. Un concerto di strumenti tradizionali: shakuhachi, shamisen e koto, prima da soli, poi in trio. Problema numero uno: aria condizionata rotta in sala. Temperature da immaginarsi e sudore a fiumi. All’uscita la signorina ci spiega: “Noi chiamato, ma opelai lomani non allivati”.
E poi: sì, le sonorità sono di sicuro interessanti, specialmente quelle del flauto, ma la latitanza (magari è colpa nostra, ma non crediamo che succeda lo stesso portando Mozart da quelle parti) di qualsiasi fatto armonico o melodico, vocale o strumentale, che sia riconoscibile e gratificante, rende molto precario il piacere dell’ascolto e inevitabilmente spinge la contabilità del tempo investito, sul rosso. Con l’aggravante della temperatura di cui parlavamo prima, ma siamo sicuri che anche col fresco non sarebbe cambiato un gran che.






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