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Il Paradiso degli Orchi
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CINEMA E MUSICA

Francesco Tromba

Daniel Johnston: il sogno e l'incubo americano.

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Daniel Johnston si presenta sul palco del Piper il 23 aprile com'era prevedibile: T-Shirt extra large blu (che non riesce a contenere la sua pancia), tuta grigia, chitarra in mano e il suo inseparabile quaderno ad anelli, zeppo di fogli plastificati che ne contengono il repertorio. Johnston si guarda intorno spaesato e inizia a suonare, è fuori tempo, sbaglia più della metà degli accordi, stona per tutta la canzone, biascica... La domanda sorge spontanea (forse in tutta la sala) perché è così famoso? Perché artisti del calibro di Tom Waits, Kurt Cobain, Sonic Youth, Beck lo ammirano tanto?

Inizialmente non riesco a elaborare una risposta convincente. Ma è proprio lui che mi schiarisce le idee dal palco con la sua performance. Inizia con 3 canzoni da solista, poi viene raggiunto da una band tutta italiana, composta dai rappresentanti di The Jaqueries, I Cani e Fabrizio Cammarata & the Second Grace (questi ultimi due avevano aperto la serata). Daniel inizia a cercare nel suo quaderno i brani che l'hanno reso famoso: 'Love in Vain', 'Speeding Motorcycle', 'Casper the Friendly Ghost', 'Is and Always Was', 'The Beatles'. Non riesce a tenere il microfono fermo e le mani, soprattutto la sinistra, tremano. Voce e sguardo oscillano continuamente tra sicurezza e incertezza, felicità e smarrimento. È evidente la sua allegria mentre canta ma, tra un pezzo e l'altro, i suoi occhi diventano bui e inquietanti.

Il motivo purtroppo è un disturbo bipolare che ne ostacola e, allo stesso tempo, alimenta la carriera. E si manifesta nello show, quando passa da una canzone come 'Speeding Motorcycle', sbilenca ed ironica, a 'Devil Town', un incubo horror. Inoltre, Daniel Johnston non parla praticamente mai con il pubblico, a parte quando chiede se va tutto bene.

Dopo circa 45 minuti, l'uomo che ha reinventato il lo-fi è stanco scende dal palco, ma torna dopo qualche minuto per il bis. La serata termina con la speranza di 'True Love Will Find You in the End' e pubblico vorrebbe ascoltarlo ancora, ma Daniel Johnston non ce la fa, per questa sera ha visto abbastanza volte il diavolo, risalire sul palco sarebbe uno sforzo eccessivo.

E, mentre continuo a domandarmi cosa insegni la sua vicenda, arrivato al banchetto dei gadget ho un'illuminazione: non c'è neanche un disco, vinile, cd o cassetta. Allora capisco che la sua musica vuole soltanto offrirla, chi vuole seguirlo lo faccia, chi vuol conoscerlo vada alla ricerca delle sue liriche. I soldi non gli interessano, è sufficiente guadagnarsi da vivere, giocando a fare l'artista. Ed ecco la risposta: la sincerità e la spontaneità della sua opera.

Nei giorni successivi continuo a pensare a quella serata, nel frattempo mi accorgo di avere sempre le canzoni in testa e la sua sagoma panciuta controluce che canta, stona e biascica. Il suo lavoro tratta temi universali in maniera diretta, quasi visiva. Le stonature passano in secondo piano, perché quell'orso goffo sa parlare e stimolare, ed è quello l'obiettivo dell'arte, far pensare e provare emozioni. Lui ci riesce in maniera amatoriale ma, nonostante ciò, meglio di molti altri che invece sono professionisti e non sbagliano una nota. A volte, l'imperfezione è ciò che rende particolare o indimenticabile qualcosa, nel caso della musica addirittura può comunicare più a fondo della perfezione. Le note si possono immaginare, il sentimento no.







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